Più di un anno fa avevamo discusso il lavoro di un economista giapponese, Richard Koo (1), lavoro che abbiamo ripreso nell’aprile scorso (2). Lo ridiscutiamo ancora, questa volta tenendo conto di quel che accade in Europa.

In due parole, riproponiamo il ragionamento di Koo
Il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla perché aveva capito dov’era il problema. Possiamo chiamarlo lo «sciopero del debitore». In altri termini, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. Secondo Koo, basta sostituire al settore delle imprese giapponesi quello delle famiglie americane per capire la situazione statunitense. A distanza di un anno, Koo ribadisce questo punto di vista (3), sostenendo che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando – o sperando – che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda automaticamente un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. La scelta degli europei e degli statunitensi oggi è quella di lasciar correre il debito pubblico per evitare la depressione. L’alternativa, ossia portare subito sotto controllo il debito pubblico per evitare che «scappi di mano», rischia di peggiorare le cose. Insomma, il bilancio pubblico va portato sotto controllo solo quando si è sicuri che è ripartita la domanda di credito del settore privato. Allo stato, le imprese e le famiglie non sono tornate a chiedere credito né in Europa né negli Stati Uniti.


Ed ecco che siamo arrivati all’Europa dell’euro
L’idea di comprimere i deficit pubblici prima ancora di esser sicuri che la ripresa sia avviata potrebbe essere una mossa nella direzione sbagliata. La Grecia (ma anche il Portogallo e la Spagna) non può tornare competitiva e sanata se alle politiche di austerità fiscale si accompagna, come sta accadendo, solo una svalutazione dell’euro. Gran parte del commercio è, infatti, fra paesi dell’area dell’euro. Al massimo, il turismo greco può diventare attraente in rapporto a quello turco limitrofo, ma non molto di più. Queste economie possono tornare competitive solo se i loro salari relativi scendono. Non potendo scendere per effetto del cambio – la moneta è eguale per tutti –, possono scendere solo in termini assoluti, ossia se i salari greci, portoghesi e spagnoli flettono in rapporto a quelli tedeschi e degli altri paesi forti ed esportatori. Messo mai, poi, che salari inferiori bastino per rendere competitive delle industrie che sono già in partenza di modesta forza. La scelta dunque è la seguente. I tre paesi risanano il debito pubblico, andando in recessione, ma non tornano competitivi. Oppure, continuano a non essere competitivi, mentre il loro debito pubblico è sostenuto dagli altri paesi dell’area dell’euro – direttamente con i prestiti e indirettamente dalla banca centrale che lo compra. Entrambe le soluzioni «comprano tempo», ma non risolvono il problema.


(1) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/gli-stati-uniti-sono-in-una-trappola-giapponese.html

(2) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/la-trappola-giapponese.html

(3) http://economistsview.typepad.com/economistsview/2010/04/richard-koo-debts-deficits-and-global-financial-stability.html