Nella puntata precedente (1) avevemo sostenuto che con le elezioni presidenziali in Ucraina si stava sviluppando la più sorprendente e inedita sceneggiatura politica del 2019. E' andata effettivamente così. Qui commentiamo sia il risultato elettorale sia le sue implicazioni nel campo della politica interna della Russia.
Vladimir Zelensky celebra la sua vittoria alle presidenziali ucraine del 21 aprile con un assordante 73% dei voti con il 62% dell'affluenza alle urne, un trionfo che corona un'operazione politica senza precedenti. Un breve riassunto, è il caso di dirlo, delle puntate precedenti: dopo aver inventato e interpretato dal 2015 la serie televisiva “Il servo del popolo”, che ha per protagonista Vassily Goloborodko, un professore di liceo che quasi per caso diventa presidente dell'Ucraina – un enorme successo in patria, comprato anche da Netflix – il più famoso comico ucraino ha annunciato di candidarsi alla presidenza anche nella realtà, ha vinto il primo turno con un numero di voti pari a quello dei suoi due principali concorrenti messi insieme e al ballottaggio è stato eletto nuovo capo dello Stato con una percentuale mai vista in una democrazia. Petro Poroshenko, il presidente uscente, ha ottenuto appena il 25% dei voti.
Una vittoria sorprendente, che mette sulle spalle del neopresidente un peso quasi insostenibile di speranze. I problemi che dovrà affrontare sono immensi: il conflitto con la Russia, la Crimea annessa e la crisi economica sono solo i primi della lista. Gli obiettivi promessi – far finire la guerra nel Donbass ottenendo dalla Russia i territori occupati e la compensazione dei danni, entrare in Europa e nella Nato, sconfiggere la corruzione e far riprendere l'economia – sono enormi, ma il primo punto nell'agenda di Zelensky sarà un negoziato con le élite ucraine, in un complesso e consolidato sistema di clan politici, oligarchici e regionali, in un sistema semipresidenzialista dove il parlamento è un centro decisionale cruciale. La gestione dell'elevatissimo grado di scontento – di cui la sua vittoria è in buona parte frutto – dovrà andare in parallelo con una serrata campagna diplomatica, necessaria all'ormai ex attore per accreditarsi a livello internazionale e superare l'inevitabile pregiudizio che lo accompagna. E la sua inesperienza politica – debolezza sulla quale ha puntato molto il suo avversario in campagna elettorale – appare un rischio minore (del resto, ci sono diversi precedenti illustri) rispetto alla tentazione di privilegiare l'aspetto mediatico nel quale Zelensky eccelle rispetto alla routine del governo. La quarta stagione del “Servo del popolo” diventa di fatto un reality show, dove la star però da attore si deve trasformare in regista, mentre si costruisce il suo partito per ora in fase embrionale.
Il clamoroso risultato elettorale è però un buon capitale di partenza. Una vittoria che è indubbiamente merito di Zelensky, uno showman di eccezionale bravura, che ha condotto la prima parte della campagna elettorale senza soluzione di continuità con la sua attività nello spettacolo: al posto dei comizi ha tenuto concerti, e alla vigilia del primo turno del 21 aprile sono andate in onda le tre puntate della terza stagione del “Servo del popolo”, uno straordinario spot elettorale che racconta con irriverenza e intelligenza l'Ucraina attuale e si conclude in un'Ucraina del futuro, europea, multietnica, ricca, ultratecnologica e globalizzata. Il risultato paradossale è stato un candidato cui molti hanno rimproverato un programma vago fatto di slogan nebulosi, ma le cui intenzioni nello stesso tempo risultavano estremamente chiare ai suoi elettori/spettatori. Da professionisti dello spettacolo, i membri del Kvartal 95, lo studio di produzione fondato da Zelensky, hanno costruito una comunicazione scattante e incisiva, con spot accattivanti e lo slogan Ze!, che giocava abilmente sul cognome del candidato e un gioco di parole tra l'inglese e l'ucraino (“Tse” in ucraino vuol dire “è” e l'articolo inglese “the” viene spesso reso come “ze” negli accenti slavi).
Una vittoria cui ha altrettanto indubbiamente contribuito lo stesso Poroshenko. Politico abile e moderato, era stato eletto nel 2014 per costruire la nuova Ucraina riformista e europeista dopo il Maidan, ma la guerra con la Russia ha costretto un oligarca della pasticceria a infilarsi la mimetica, e a pagare l'enorme prezzo del conflitto armato (non di averlo aperto, ma di averlo gestito in maniera disastrosa, come dimostra l'altissima percentuale ottenuta da Zelensky tra i soldati e gli ufficiali dell'esercito), della crisi economica (l'Ucraina è oggi il Paese più povero d'Europa), delle riforme avviate e ancora di più di quelle rimandate. Per buona parte del suo mandato presidenziale Poroshenko ha dovuto difendersi dalle frange più radicali, con il paradossale risultato di averne infine assorbito l'agenda: il suo slogan elettorale è stato “Esercito. Lingua. Religione”, un messaggio nazional-conservatore che è suonato divisivo e datato rispetto a ”Un Paese del XXI secolo” e “Facciamolo tutti insieme” del suo concorrente.
Infine, gli spin doctor del presidente gli hanno suggerito una campagna elettorale estremamente aggressiva (in uno spot si vede Zelensky travolto da un camion) e inquinata da fake news. La carta su cui ha puntato Poroshenko nelle tre settimane prima del ballottaggio è stata l'accusa a Zelensky di essere un cocainomane (sulla falsariga della campagna che dipinge lo stesso Poroshenko come alcolizzato, condotta da anni dalla propaganda russa), un ignorante negli affari statali, una marionetta dell'oligarca Igor Kolomoysky sul cui canale tv escono i film del comico (Poroshenko è uno dei principali oligarchi ucraini e proprietario del canale tv concorrente) e infine un uomo di Putin. Il manifesto dove Poroshenko ha di fronte Putin e la frase di uno dei suoi consiglieri che ha definito “schiavi dei russi” gli elettori di Zelensky invece di mobilitare l'elettorato l'hanno allontanato, e il presidente ha dovuto giustificarsi, eliminando l'argomento del “filorusso” dalla sua retorica elettorale negli ultimi giorni.
La novità principale del voto ucraino è proprio questa: per la prima volta la Russia non era uno dei temi elettorali. Il dibattito sul diritto dell'Ucraina all'indipendenza e all'autonomia dal vicino orientale ormai sopravvive solo fuori dai suoi confini, essenzialmente nella Russia stessa e negli ambienti filorussi occidentali. In Ucraina è un non argomento, e l'agenda filorussa è praticamente assente dal panorama politico (Boyko, candidato degli ambienti vicini all'ex presidente Yanukovich, fuggito in Russia, ha preso al primo turno il 10% dei voti). Il luogo comune dell'Ucraina spaccata politicamente a metà può rimanere valido da un punto di vista linguistico, in parte religioso, storico o economico, ma politicamente già Poroshenko aveva superato nel 2014 il divario, e Zelensky ha compiuto quello che sembrava impossibile: ha vinto praticamente in tutte le regioni del Paese. Le uniche ad aver preferito altri candidati sono state tre regioni dell'estremo Ovest (Poroshenko) e le due regioni del Donbass nella parte non occupata dai separatisti filorussi (Boyko), in una sintomatica replica della cartina dell'Ucraina riunificata mostrata nel “Servo del popolo-3” (dove a rimanere fuori, salvo poi confluire nel Paese unito, sono l'enclave degli ultranazionalisti a Ovest e i nostalgici sovietici a Est).
I film e gli spettacoli di Zelensky non lasciano dubbi sulla sua posizione filoucraina e antiputiniana, pur ridicolizzando i nazionalisti estremi, e il tentativo di Poroshenko e dei suoi seguaci di monopolizzare la purezza etnico-lunguistica si è rivelato un boomerang. Entrambi i candidati hanno attinto a piene mani dalla metodologia populista – Zelensky ha incentrato la campagna sull'onestà, promettendo lotta alla corruzione e prigione per tutti – ma se usiamo il termine “populista” nella sua accezione mediatica comune, come sinonimo di “sovranismo” o “nazionalismo”, quello che più ci si è avvicinato è stato Poroshenko. Tra i due classici del populismo, il messaggio di “paura” del presidente della guerra però ha fallito di fronte al messaggio del “sogno” del suo sfidante.
Zelensky ha conquistato la stragrande maggioranza del voto under-35, della generazione nata e/o cresciuta in un'Ucraina indipendente che sogna l'Europa, per la quale il problema dell'affiliazione alla Russia e della legittimità dell'indipendenza non si pone, e di conseguenza non è più necessario dimostrare la propria diversità dai russi nella lingua, nell'abbigliamento o nelle usanze. La distinzione esce dallo scivoloso terreno dell'etnico e diventa politica, e un comico di origini ebraiche e di lingua russa in un Paese di fatto bilingue può rappresentare un momento di equilibrio nella complessa ricerca di un'identità nazionale postsovietica, riassunta nella formula del “etnicamente russo e politicamente ucraino” coniata dopo il Maidan.
Questo messaggio di cui Zelensky si fa portatore è potenzialmente dirompente per il Cremlino, e non a caso il primo russo a congratularsi “con l'Ucraina e gli ucraini” è il leader dell'opposizione Alexey Navalny, che subito dopo la pubblicazione dei primi exit poll ha esultato per le libere elezioni ucraine. I media russi, anche quelli governativi, hanno seguito molto da vicino la campagna elettorale a Kiev, un po' perché la vita politica russa scarseggia di plot che si possono discutere pubblicamente, e in buona parte perché le linee guida per la propaganda russa impongono di ridicolizzare gli ex vicini, mostrando ai russi quanto ci hanno rimesso politicamente e economicamente a staccarsi da Mosca. Ma la facile critica “hanno perfino un presidente pagliaccio” ha però finito involontariamente per svelare al pubblico russo un aspetto importante: in Ucraina si tengono elezioni libere, il presidente può essere criticato e i suoi amici attaccati per la corruzione, lo sfidante può promettere la “rottamazione” del vecchio sistema e i giornalisti durante il confronto finale possono interrompere il capo di Stato perché ha sforato il cronometro. Al di là dei contenuti, uno spettacolo impensabile in Russia (tra parentesi, Poroshenko nella sua campagna elettorale ha fatto ricorso a toni “putiniani” scommettendo sulla sua insostituibilità e la sacralità del potere, senza però ottenerne benefici). Le vicende interne del Paese più grande d'Europa guadagnano raramente l'attenzione dei media occidentali, ma l'Ucraina è l'unico Stato postsovietico (con l'eccezione dei Paesi Baltici, ormai nell'Ue) con una reale e pacifica alternanza del potere politico: Vladimir Zelensky è il sesto presidente eletto in 30 anni, preceduto da personaggi che hanno proposto visioni e culture diverse quando non opposte.
Alexandr Baunov di Carnegie Russia considera Poroshenko “un sosia di Putin, in quanto difensore del Paese dalle minacce esterne e vendicatore dei torti subiti”, e di conseguenza la controparte ideale per il Cremlino in cerca di nemici (2). Un comico – popolare anche in Russia – che parla russo, non si atteggia a nazionalista, ma nello stesso tempo è antiputiniano e filoeuropeo – toglie a Mosca il monopolio dell'identità russa, il leit-motiv del nazionalismo putiniano che ha finito con l'identificare l'etnia e il modello politico. Essere russi non esclude più l'essere liberali e europeisti. “Il presidente Zelensky trasforma l'Ucraina da un problema di politica estera in un problema di politica interna russo”, scrive Baunov, con un “candidato del popolo giovane, brillante e spiritoso che si concentra sui problemi interni del suo Paese e appare come un'alternativa all'ormai noioso Putin”. La crisi economica rende il divario del benessere tra Russia e Ucraina meno lampante, mentre la maggiore libertà politica e la prospettiva dell'avvicinamento all'Europa possono far apparire all'elettore russo il Paese vicino non più come una repubblica delle banane, un pezzo dell'impero perduto da riportare all'ovile, ma come modello da seguire. E un presidente europeista e russofono che ha trionfato nell'Est ucraino che parla russo rende molto più difficile per la propaganda del Cremlino sia attaccarlo che invocare l'unità spirituale e politica del “mondo russo” contro la corrotta Europa.
I paralleli tra Navalny e Zelensky sono numerosi: hanno quasi la stessa età (43 e 41 anni) e la stessa immagine del Davide che sfida Golia, del self-made leader che parla al popolo sopra le teste della nomenclatura, di “uno dei nostri ragazzi che ce l'ha fatta” contro i corrotti e i potenti, del moderno contro l'obsoleto, del mediatico e popolare contro lo ieratico e irraggiungibile, del rottamatore del vecchio sistema in nome della generazione cresciuta senza il Muro. Entrambi parlano di futuro e propongono di lasciare alle spalle il passato sovietico. Zelensky ha citato Navalny nei suoi film, Navalny ha trasmesso il dibattito finale della campagna elettorale ucraina sul suo canale YouTube come esempio di quello che dovrebbe accadere anche in Russia. Già dopo la rivoluzione arancione del 2004 Kiev è diventata la destinazione dell'esilio volontario di dissidenti, giornalisti, politici e intellettuali russi estromessi dal regime putiniano. Ora, superato il formato “etnico” che la propaganda del Cremlino e la destra ucraina attribuivano al conflitto con gli ex “fratelli slavi”, il pubblico russo potrebbe vedere un'alternativa reale a un sistema politico che si propone come immutabile e insostituibile.
2 - https://carnegie.ru/commentary/78822
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