Agli inizi degli anni Sessanta l'Italia ebbe la grande occasione per fare il salto definitivo verso la Modernità, se solo si fosse capito quello che stava accadendo, e se si fosse agito nella giusta direzione, naturalmente. La vicenda ha molte letture, ma il filo conduttore del ragionamento che esponiamo è l'Olivetti.
A Ivrea intuirono l'esistenza del computer personale. Solo che l'impresa non aveva i conti floridi – secondo alcuni erano disastrati, secondo altri sotto controllo. E non li aveva floridi anche perché doveva formare il personale che assumeva. Il costo della formazione per altre imprese era a carico della fiscalità generale che pagava le scuole e le università. Per l'Olivetti era diverso, perché la formazione che si riceveva all'epoca non era al passo del nuovo che emergeva nel Canavese. Morale, dopo vicende alterne, la divisione elettronica non fu salvata da mani private, né fini in quelle pubbliche, ma finì in mani statunitensi.
Perché? Per incomprensione “culturale”. L'esistenza di un computer personale non è, infatti, solo un'intuizione tecnologica, è anche una visione. L'idea, in altre parole, che esiste l'individuo che è sì indipendente, ma che vive connesso con gli altri – una monade con porte e finestre. Tutte cose che sono diventate evidenti alcuni decenni dopo, con la nascita delle Reti. Una visione incomprensibile agli occhi “fordisti”- il mondo delle grandi fabbriche più o meno sindacalizzate, che integravano tutto o quasi nella propria catena produttiva -, che era allora il modo di vedere prevalente e nel mondo imprenditoriale e in quello sindacale. Per i primi l'Italia era un Paese a vocazione “fordista”, non uno a vocazione da “frontiera tecnologica”, per i secondi esisteva solo l'operaio alla catena – l'elettore naturale - e non il tecnico istruito che produceva beni impalpabili.
L'idea prevalente era quella di portare a compimento l'industrializzazione tradizionale, che avrebbe trascinato un Paese ancora molto arretrato nella Modernità. E dunque un'impresa stramba, che produceva cose di cui non si capiva lo scopo, e che non aveva dei conti solidi, era fuori dal radar di quel che si poteva condividere. Il risultato è che poi non abbiamo avuto una filiera di alta tecnologia che avrebbe potuto aiutare, distribuendo cultura e prodotti, l'industria “leggera” italiana (agroalimentare, tessile, beni capitali, ecc) ad essere ancora più competitiva. Si capiva benissimo da parte imprenditoriale e politica il ruolo che giocavano nello sviluppo le infrastrutture, i beni di base - come la chimica e l'acciaio, ecc -, ma non quello della “frontiera tecnologica”. Si capiva benissimo da parte sindacale il ruolo attivo che potevano giocare gli immigrati delle grandi fabbriche, ma non si capiva il ruolo dei tecnici nelle fabbriche leggere che sarebbero potute sorgere.
La morale è che non eravamo destinati a finire nella trappola della crescita salariale superiore alla crescita della produttività con le svalutazioni che servivano a riportare in equilibrio (instabile) il tutto, se si fosse capito che esisteva un altro Mondo. In un libro multi-mediale trovate e la storia dell'Olivetti e quella dei primi anni Sessanta, quando si poteva ancora portare a compimento il “miracolo economico”, sorto nel decennio precedente: Michele Mezza, Avevamo la luna, Donzelli.
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