Le difficoltà che avrebbe potuto incontrare una moneta unica utilizzata da un insieme di stati eterogenei tra loro e con politiche fiscali autonome erano state evidenziate, fin dal momento dell’adozione dell’euro, da diversi economisti e osservatori. Fino al propagarsi dell’attuale crisi, però, i problemi erano in qualche modo rimasti «sotto il tappeto»: grazie ai bassi tassi di interesse di cui tutti gli stati sovrani hanno potuto godere, lo status quo piaceva a tutti e i potenziali rischi sono stati, per circa un decennio, trascurati. Proprio il fatto di godere di tassi di interesse relativamente bassi ha contribuito a far sì che il percorso di consolidamento dei conti pubblici che molti paesi avevano intrapreso negli anni Novanta (proprio per entrare nell’euro) si arrestasse o, comunque, andasse incontro a un notevole affievolimento.

Quando i mercati si sono accorti per davvero che i titoli tedeschi non sono uguali a quelli greci o portoghesi (o italiani, spagnoli, irlandesi), le contraddizioni di un sistema istituzionale così disegnato sono emerse con forza. Nel corso dell’estate i governi europei hanno cercato di mettere qualche pezza, ma occorrerà fare ordine nei sistemi di governance dei due pilastri che costituiscono la politica economica di un paese o di un’area economica: la politica fiscale e la politica monetaria.

Cominciamo dalla politica monetaria. L’eurosistema (l’insieme di Banca Centrale Europea e banche centrali delle nazioni aderenti all’euro, responsabile della politica monetaria dell’area euro) ha finora perseguito il suo obiettivo (inflazione contenuta nei limiti del 2%) in maniera relativamente efficace. Durante la crisi l’inflazione media annuale dell’area euro non ha mai superato il 2,5%. Le vicende recenti rischiano, però, di mettere in dubbio i due principali requisiti alla base di una politica monetaria efficiente. Innanzitutto, l’indipendenza della Banca Centrale dai governi deve essere sempre garantita, ed è per questo che in quasi tutti i paesi, nel corso degli ultimi decenni, l’operato delle banche centrali è stato sottratto al controllo dei rispettivi governi nazionali. Con l’indicazione di acquistare sul mercato secondario titoli di stato dei paesi a rischio (decisione magari utile ma controversa), si crea un precedente importante d’ingerenza nelle politiche monetarie della Banca Centrale. In secondo luogo, tutte le banche centrali operano in base a una funzione obiettivo, che comprende target in termini di inflazione e crescita. Lo statuto della Bce va oltre e prevede, come obiettivo primario, proprio il contenimento dell’inflazione sotto il 2%: tutti gli altri obiettivi di politica economica vengono dopo e devono assolutamente essere subordinati a questo. Le scelte confuse di queste settimane sembrano prescindere da questo principio. Siccome l’efficacia di una politica monetaria è determinata in maniera critica dalla credibilità dell’istituzione che la conduce e dal grado di commitment agli obiettivi fissati, occorrerà ribadire e dimostrare al più presto che la Bce persegue senza eccezioni l’obiettivo di contenere l’inflazione, prima di tutti gli altri obiettivi di politica economica.

Passiamo alla politica fiscale. Una moneta per diversi paesi, eterogenei e con politiche fiscali autonome, può andare incontro a ovvie difficoltà. Prima della crisi si pensava (sperava) che il rispetto dei parametri di Maastricht, per quanto rigidi o discutibili, avrebbe garantito almeno una certa omogeneità nel mantenere sostenibili i conti dei paesi membri. La rigidità dei parametri di Maastricht, che doveva essere uno dei punti di forza degli stessi, si è però dimostrata ben presto un limite. Di fronte alla crisi, tutti hanno oltrepassato la soglia di deficit. La Germania è stata tra i primi a farlo, ma è rientrata più in fretta sul binario corretto. Per altri non è stato così. Quando la tempesta sarà passata, occorrerà stabilire un nuovo modus operandi. Ci sono due possibilità, ed entrambe presentano notevoli limiti.

Alcuni propongono un accentramento della politica fiscale a livello europeo (unificazione o coordinamento fiscale, che dir si voglia). In questo modo, a fronte di un’area con una moneta comune, si avrebbe una politica fiscale comune. Questa strada è però ricca di controindicazioni. Innanzitutto, una politica fiscale comune si basa sul presupposto che sia possibile effettuare trasferimenti (impliciti o espliciti) tra i diversi paesi interessati. Sono disponibili i paesi più ricchi a seguire questa opzione? Se così fosse, probabilmente si sarebbe già potuta proporre una riduzione dello stock del debito dei paesi più disastrati (la Grecia in primis) attraverso forme più o meno dirette di trasferimenti. Anche supponendo che la disponibilità ci sia, questa scelta potrebbe esacerbare i problemi di moral hazard evidenziati finora sul lato della politica monetaria. Fino a oggi alcuni paesi hanno potuto beneficiare dell’assicurazione implicita che il default di un paese dell’area euro non sarebbe stato possibile e hanno rimandato scelte di finanza pubblica difficili. Un domani, sotto lo scudo di una politica fiscale coordinata, alcuni paesi potrebbero rimandare scelte strutturali per rilanciare la competitività, confidando nel fatto di poter ottenere l’aiuto di paesi terzi in caso di shock negativi alle proprie economie.

L’altra soluzione è quella di creare nuovi vincoli, più stringenti e magari più flessibili di quelli di Maastricht, da rispettare nel futuro. L’approvazione di limiti costituzionali all’indebitamento è una scelta che va chiaramente in questa direzione. In questo caso, e soprattutto considerando gli eventi degli ultimi anni, il problema è quello della credibilità. Così come i parametri di Maastricht non sono stati rispettati nel momento in cui uno shock negativo ha colpito le economie europee, anche i vincoli costituzionali sarebbero facilmente superabili. E se le classi politiche dei paesi interessati non hanno la credibilità necessaria per assicurarne con ragionevole certezza il rispetto, difficilmente i mercati potranno farvi affidamento per giudicare le intenzioni future dei governi europei.

Nell’attesa di capire quale sarà l’assetto istituzionale che regolerà le politiche monetarie e fiscali dell’Ue nei prossimi anni, si procede con misure di emergenza, spesso estemporanee, e con tentativi imperfetti di coordinamento tramite summit, indicazioni non vincolanti ai paesi in difficoltà e interventi spesso in contrasto con quelle regole che l’Ue si era data proprio per garantire il rispetto di certi canoni nella gestione del proprio spazio economico. Ma ogni intervento estemporaneo risolve un problema oggi sollevando dubbi sulla capacità di affrontare i problemi domani. Occorrerà quindi trovare delle regole d’azione condivise al più presto per far comprendere ai mercati come l’Ue si vuole attrezzare per gestire le proprie politiche di medio-lungo termine.