Agli inizi degli anni Novanta in un grattacielo di Londra – sede di una grande banca – fu detto a chi scrive che ormai le cose del mondo erano cambiate. La caduta dell’Unione Sovietica mutava le prospettive finanziarie dell’Europa continentale. Le imprese tedesche avevano dei bilanci troppo prudenti. Se redatti come quelli delle imprese britanniche, gli utili sarebbero raddoppiati. Ossia, tecnicamente, le imprese tedesche esageravano con gli ammortamenti. L’Est Europa sarebbe poi diventata una miniera d’oro, con tutte le privatizzazioni, le fusioni e le acquisizioni che si sarebbero avute. La City si sarebbe mossa verso l’Europa, anche perché ormai in Gran Bretagna aveva poco da fare, dopo un decennio d’intense privatizzazioni.
Agli inizi degli anni Novanta in un grattacielo di New York – sede sempre di una grande banca – un ambasciatore di Sua Maestà spiegava la prima guerra del Golfo come un’esibizione di supremazia tecnologica. Caduta l’Unione Sovietica, era mostrato al mondo che gli Stati Uniti erano in grado di dargli un ordine. Alla domanda di chi scrive: «Non capisco il cambio dello yen, per tenerlo debole i giapponesi accumulano una gran quantità d’attività finanziarie statunitensi, anzi ne accumulano troppe», l’ambasciatore rispose che eravamo sul terreno della grande politica. I giapponesi, detenendo molte attività finanziarie americane, che potevano vendere in ogni momento, avrebbero potuto influenzare gli Stati Uniti nella loro difesa strategica contro l’insorgenza cinese.
Agli inizi degli anni Novanta in un grattacielo di Francoforte – di nuovo sede di una grande banca – fu spiegato a chi scrive che cosa avevano in mente. Solamente con una moneta unica si sarebbe potuto costruire un mercato dei capitali enorme, il solo in grado di finanziare l’industrializzazione dell’Est Europa. Il mercato finanziario europeo – grazie alla moneta unica – si sarebbe emancipato da quello degli Stati Uniti. Esso avrebbe avuto la stessa dimensione – soprattutto quello obbligazionario – e non sarebbe stato influenzato dalla politica monetaria degli Stati Uniti.
Agli inizi degli anni Novanta in una modesta villa della Baviera – buen ritiro di un esponente di spicco della CDU in terra CSU – fu spiegato a chi scrive che non si aspettavano una caduta così repentina della Repubblica Democratica Tedesca. Non solo, neppure si aspettavano che la sua economia fosse così mal messa. I consulenti – una famosissima casa statunitense – avevano stimato, per un onorario impressionante, il valore dell’industria della RDT, e sulla base di questa stima fu costruita l’IRI tedesca – il Treuhand Anstalt, che avrebbe dovuto acquisire, ristrutturare e poi privatizzare il suo apparato. Quel che si vedeva dopo qualche anno era solo un boom edilizio, con le imprese ex RDT che erano comprate, solo se avevano una locazione attraente. Erano comprate e poi chiuse.
Agli inizi degli anni Novanta nel palazzo Wallenstein di Praga un banchiere berlinese raccontò durante una cena che finalmente si tornava alla Mitteleuropea, da lui definita come il cuore pulsante della Civiltà. I mezzi finanziari abbondavano e tutto quanto sarebbe stato costruito, sulle ceneri di una rovina che aveva all’origine le ubbie di un signore – definito con sprezzo «il maestro delle elementari Wilson» – che ignorava l’importanza della Chiesa e degli Asburgo. Un ufficiale statunitense della NATO si voltò verso chi scrive dicendo sottovoce che i tedeschi sono e moriranno «socialisti» (sic). «Lo dico a lei perché degli italiani possiamo fidarci; questi, invece, fanno di testa loro!».
Questo era il clima agli inizi degli anni Novanta. La posta in gioco era l’Europa dopo la caduta dell’URSS. Agli europei il resto del mondo non interessava. Si ricominciava daccapo. L’euro era lo strumento strategico per rimettere in moto le cose. Il cuore dell’Europa era la Germania, finalmente pacificata con la Francia. Si noti che nel 1993 fu tentato l’attacco al franco francese – sorta di assalto finale alla moneta unica. A differenza di quel accadde ai tempi dell’attacco alla lira del 1992, la Bundesbank vendette tutti i marchi che servivano per comprare i franchi, e nulla accadde. Il segnale era chiaro. L’euro si fa. Punto.
Quelli della City che lavoravano sui cambi delle molte monete europee cercarono un nuovo impiego. L’Est Europa – finanziariamente parlando – è stato un nuovo mercato, contrariamente agli auspici della City, soprattutto per le imprese dell’Europa continentale. Gli Stati Uniti hanno rifatto la guerra a Saddam, impressionando meno della prima volta. I cinesi hanno accumulato lo stesso ammontare di attività finanziarie statunitensi dei giapponesi. E siamo tornati alle vicende di oggi.
Le critiche all’euro
Vi era chi pensava che l’euro non potesse funzionare, perché in caso di disoccupazione i portoghesi non sarebbero potuti andare in massa in Renania, come fanno gli statunitensi che si muovono liberamente da uno stato all’altro. Troppo radicamento, troppe lingue. Inoltre, in caso di crisi, il bilancio pubblico portoghese sarebbe andato in forte deficit, e nessuno lo avrebbe sostenuto. Invece, negli Stati Uniti il bilancio federale sposta le risorse di sostegno dei disoccupati dalle aree che vanno bene verso quelle che vanno male. Troppo radicamento, troppe lingue.
L’Europa – secondo la critica – non è un’«area valutaria ottimale». Forse la Germania, il Benelux, la Francia e l’Austria sono un’area che può funzionare, perché abbastanza omogenea, ma non il «resto». L’Italia ha – a bilanciare il suo gran debito pubblico – un apparato industriale affetto da «nanismo», ma funzionante. La Spagna ha un apparato bancario enorme, ma uno industriale modesto. Il Portogallo e la Grecia sono paesi economicamente molto fragili.
Comunque sia, l’euro si è allargato, a partire da un’area relativamente omogenea. Si è allargato verso i paesi disomogenei, mentre le banche dei paesi omogenei compravano il debito di quelli disomogenei. La crisi greca mostra bene tutti i punti sollevati. Abbiamo un paese che è vissuto ben «sopra i propri mezzi», con un sistema fiscale arretrato, il cui debito era comprato soprattutto dall’estero, per la precisione dai paesi europei omogenei.
La crisi greca (1)
Alcuni numeri. Il debito pubblico greco è nell’ordine dei 250 miliardi di euro. Due terzi del debito è detenuto da non greci. Il reddito pro capite greco è – secondo le statistiche ufficiali – al 40° posto nel mondo. Il reddito dei greci è sottostimato. In tutta la Grecia ci sono, infatti, solo sei persone che dichiarano un reddito superiore a un milione di euro. E solo ottantacinque che dichiarano un reddito di mezzo milione. Dei numeri non verosimili. Dunque i greci hanno un reddito superiore.
I greci come tali non sono quindi mal messi. Mal messo è il debito pubblico greco. Il quale debito pubblico greco, superiore al 100% del prodotto interno lordo, costa all’economia greca – con dei rendimenti sulle obbligazioni che tendono al 5% – il 6%. Ossia ogni anno il 6% del reddito prodotto in Grecia va a servire il debito. Due terzi sono cedole versate all’estero e un terzo sono cedole versate ai greci. Per fare un confronto, il 95% del debito pubblico giapponesi è detenuto da giapponesi. Se il Tesoro del Giappone smettesse di pagare le cedole, i giapponesi ne risentirebbero. Se la stessa cose accadesse in Grecia, la popolazione ne risentirebbe molto meno. Insomma, il ripudio del debito non sarebbe una vera catastrofe per i greci, ma lo sarebbe molto di più per chi ha comprato il debito greco.
Detto dei numeri, discutiamo dei salvataggi. Perché mai le banche statunitensi sono state salvate? Esse potevano non essere salvate, ma nazionalizzate, com’è stato fatto con le case automobilistiche. Se non fossero state salvate, si sarebbe avuta una crisi profonda del sistema delle pensioni, che negli Stati Uniti ruotano in buona parte intorno ai mercati finanziari. Inoltre, gli statunitensi contano di vendere la propria casa a un prezzo superiore a quello d’acquisto e così «rimpinguare» la pensione legata in buona misura ai mercati finanziari. Quel che è accaduto negli Stati Uniti con la crisi è che si è messo a repentaglio il reddito delle persone vicine al pensionamento. Da qui i salvataggi delle banche e delle istituzioni che erogano mutui ipotecari. Salvataggi che possiamo definire un «trasferimento intergenerazionale»: dalle generazioni giovani oggi e dai nascituri – che dovranno pagare per molti anni il debito pubblico emesso – alla generazione nata nel dopoguerra, i così detti baby boomers. Siamo sicuri che dietro la crisi della Grecia e gli appelli al salvataggio non si abbia una situazione simile? I baby boomers in questo caso sono soprattutto francesi e tedeschi. I gestori dei fondi pensione di questi paesi volevano un rendimento alto, senza rischi valutari e senza rischi legati alla solvibilità dell’emittente. Ossia, volevano un rendimento superiore a quello del proprio debito pubblico, senza rischiare nulla. Ed ecco che arriva la Grecia, che paga un rendimento superiore senza rischio cambio (è nell’euro) e senza rischio emittente (allora sembrava così). E giù a comprare il debito greco, senza andare troppo per il sottile. Come nel caso della finanza negli Stati Uniti, i grandi paesi europei possono oggi lasciar cadere la Grecia e quindi trasferire l’onere su chi ha investito – i baby boomers. Oppure, salvare la Grecia e trasferire alle generazioni ancor giovani e ai nascituri l’onere del salvataggio della Grecia.
E’ vero che l’estero era pronto a comprare il debito greco, ma i greci lo hanno emesso. Arriviamo così al meccanismo politico che ha portato alla grand’emissione di debito pubblico. La Grecia era un piccolo paese molto frugale. Lo stato raccoglieva poche imposte, anche se le aliquote erano alte, e spendeva poco. La rete sociale era ridotta all’essenziale, quella delle infrastrutture era modesta, mentre la spesa militare era elevata, a causa delle tensioni – vere o supposte – con la Turchia. Poche famiglie controllavano le imprese dell’acciaio, del cemento, dell’alimentare e delle costruzioni. Il resto erano le compagnie di navigazione e l’industria turistica. Poi, nel 1980, la Grecia entra nella Comunità Europea (e nell’euro nel 2001). Il gran reddito che nasceva dalla costruzione di infrastrutture finiva nelle mani delle oligarchie economiche e politiche. Il governo greco è così diventato nel corso del tempo il «battitore d’asta» dei grandi progetti. I denari arrivavano copiosi dall’estero per finanziare il deficit pubblico. E arrivavano con un costo contenuto. I settori che lavorano da sempre con l’estero – le compagnie di navigazione e l’industria turistica – vivono in un mondo tutto loro. Gli agricoltori sono stati favoriti dalla politica della Comunità. Le oligarchie economiche e politiche sono diventate più ricche. Parte dei greci non sembra essersi accorta di quanto è accaduto. Non ha avuto dei benefici visibili. Per questo sarà difficile che passino le politiche d’austerità, volte a pagare il debito.
L’importanza della politica
Accade che paesi con gli stessi problemi – intendendo con la stessa dinamica fuori controllo del debito pubblico – siano giudicati in maniera diversa, a seconda della storia e della struttura politica. Quelli con un passato virtuoso sono, almeno temporaneamente, meno penalizzati. Stiamo parlando della Gran Bretagna e della Grecia. Entrambi i paesi hanno una dinamica del debito fuori controllo e hanno bisogno di una politica di austerità molto marcata (2). La crisi ha colpito la Grecia, ma comincia a colpire la Gran Bretagna.
La differenza fra i due paesi sta nel sistema politico; quello inglese – se emerge quest’anno alle elezioni una maggioranza solida – può reagire meglio. Un sistema di «dittatura eletta», come quello inglese, può infatti prendere delle decisioni come nessun altro. Di fatto monocamerale, con un sistema elettorale che premia il vincitore. Dunque un paese in crisi è governato meglio se le decisioni sono prese velocemente.
Si potrebbe subito ricordare il governo Amato I, quello della «madre di tutte le manovre», che ci salvò dopo la svalutazione della lira. Una crisi finanziaria grave con quasi tutti i parlamentari che sapevano – a causa di Mani pulite – che non sarebbero stati rieletti. Dunque, un governo del leader di fatto, con un parlamento debole di fatto. Dunque ancora, un esecutivo forte, e un legislativo debole. E – per qualche mese – fummo britannici.
Ifigenia in Aulide
Per ripudiare il debito un paese non deve avere un bilancio pubblico in deficit. L’emissione di obbligazioni per finanziare il deficit non sarebbe, infatti, sottoscritta. Inoltre, il debito dovrebbe essere lungo, ossia scadere dopo qualche tempo, quando si è dimenticato il dramma del ripudio. La Grecia è in deficit e il suo debito scade in tempi ravvicinati. Se la Grecia uscisse dall’euro, il suo debito, per essere sottoscritto in nuove dracme, richiederebbe dei rendimenti elevatissimi. Una moneta fragile di un paese fragile «comanda», infatti, dei rendimenti molto elevati. La nuova dracma, inoltre, non risolleverebbe le sorti della Grecia, spingendo le esportazioni, perché il paese non ha un’industria competitiva, come accadde invece all’Italia, nel 1992, con la svalutazione della lira.
La Grecia non può uscire dall’euro, e, se ciò anche accadesse, andrebbe incontro a una crisi ancora più grave. L’uscita dall’euro con un gran debito e un’industria molto modesta richiederebbe, infatti, la riesumazione della banca centrale che sottoscrive il debito pubblico, ossia che lo «monetizza». Una via d’uscita che potrebbe spingere il paese in una spirale di inflazione. Se i salari e le pensioni non sono indicizzati ai prezzi, si ha tensione politica; se lo sono, l’inflazione non mette in ordine i conti.
L’happy ending della vicenda greca è la possibilità della conclusione migliore, ottenuta con il ritorno veloce della fiducia, grazie alle manovre di austerità condivise senza tensioni dalla popolazione coscienziosa. Il tragico è, invece, la scelta fra due conclusioni entrambe «brutte»: se la flotta è ferma per mancanza di vento, tutti muoiono, quindi anche la figlia del comandante; se la figlia del comandante è sacrificata, torna il vento e la flotta si salva. Delle due scelte tragiche – una politica di austerità protratta che crea tensioni sociali stando nell’euro e l’uscita dall’euro con inflazione – la prima pare la migliore.
(1) Riassumo la cosa migliore che abbia letto sull’argomento. L’autore è anonimo – si dice un banchiere d’origini greche della Goldman Sachs. Il documento l’ho trovato nel sito The Long Room del «Financial Times».
(2) http://www.bis.org/publ/othp09.pdf
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