I recenti incontri al vertice tra India e Stati Uniti hanno confermato una previsione che aleggiava da tempo tra gli osservatori. Delhi è prossima a consolidare la sua presenza in Afghanistan. Sia in termini economici, quanto nell’ambito della sicurezza. Nell’arco di appena due settimane, prima il segretario alla difesa Usa, Leon Panetta, poi la responsabile della politica estera di Washington, Hillary Clinton, hanno stretto le mani dei rispettivi omologhi indiani. È un rapporto bilaterale di ampio respiro quello che i due Paesi hanno ormai stabilito. Due gli obiettivi condivisi: bloccare la dilagante crescita cinese e parallelamente migliorare il già florido scambio commerciale, oggi arrivato al centinaio di miliardi di dollari annui. Nel 1995 questi erano otto.

C’è poi una terza questione, che si chiama Afghanistan e che ha riscosso la massima attenzione dei partecipanti ai summit. Per Stati Uniti e India, parlare del Paese degli aquiloni non vuol dire limitarsi ai problemi di guerra e sicurezza. Bensì definire le strategie di economia e geopolitica che interesseranno l’Asia centro-meridionale da qui ad almeno una ventina d’anni. È dall’Afghanistan e poi dal Pakistan che dovrebbero passare le future rotte di approvvigionamento di idrocarburi. Dal Nord (Kazakistan, Uzbekistan, eccetera) verso l’Oceano indiano e dall’Iran in direzione prima dell’India e poi dell’Estremo Oriente.

Nel 2014, la Nato chiuderà il capitolo Isaf (International Security and Assistance in Afghanistan). Nel Paese resteranno solo alcuni contingenti occidentali ridotti, con lo specifico ruolo di addestrare le forze armate del governo di Kabul. Non è un segreto che, da qui a quell’appuntamento, il presidente Hamid Karzai non sarà in grado di migliorare il livello di sicurezza sul territorio di sua giurisdizione. E nemmeno basteranno le poche truppe dell’Alleanza atlantica che rimarranno al suo fianco. Washington ne è consapevole. E se non vuole che Karzai & Co. si rivolgano ad altri per mettere a posto il Paese, è costretto a emettere una sorta di procura a un suo alleato locale. Cina e Russia – lo hanno detto apertamente all’ultima riunione della Shanghai Cooperation Organization – sarebbero ben liete di subentrare a Washington che se ne va dall’Afghanistan, dimostrando che non è poi così difficile mettere in riga quattro tribù. In realtà, la Russia per prima dovrebbe ricordarsi quanto sia sconveniente sottovalutare i guerrieri afgani. Volubili, tenaci e soprattutto corrotti quali essi sono.

Gli Usa, in ogni caso, non hanno alcuna intenzione che Pechino o Mosca siano nuove fonti di preoccupazioni in un contesto già problematico. Fare appello all’India, di conseguenza, appare una buona alternativa. Quando la scorsa settimana Panetta ha espressamente chiesto la collaborazione militare indiana in Afghanistan, Delhi non se l’è fatto ripetere due volte.

Del resto, gli indiani in Afghanistan sono quasi di casa. Non è necessario scomodare Alessandro Magno o gli avventurieri del Grande gioco del XIX secolo per rendersi conto delle affinità tra il subcontinente e il Paese vicino. Sia Delhi sia Kabul sono condizionati da frammentarietà etnico-religiose. Il che faciliterebbe la prima nel compito di affiancamento a Karzai per la pacificazione tribale del suo Paese. Le forze armate indiane inoltre sono strutturate sul modello anglosassone, vale a dire occidentale e quindi coincidente con il sistema che la Nato sta cercando di importare a Kabul.

Tuttavia, sono gli interessi economici a motivare nel concreto Delhi. Interessi legati ad ambizioni geopolitiche. In primis il famoso seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu che l’India insegue da decenni e che, per tante vicissitudini, non è ancora riuscita a ottenere. Un seggio, peraltro, che la Cina ha dalla nascita delle Nazioni unite. È plausibile pensare che se il governo presieduto da Manmohan Singh dimostrasse alla comunità internazionale di saper risolvere il “caos Asia”, le stanze dei bottoni al Palazzo di vetro gli risulterebbero finalmente accessibili. Così facendo non avrebbe alcun problema a rivaleggiare alla pari con Pechino anche a New York. Osservando la stessa ipotesi da una prospettiva occidentale, meglio ancora se da Washington, ci si renderebbe conto che l’India è la sola in grado di sporcarsi le mani in questioni che gli Usa non sanno come risolvere. Iran in primis.

Per gli oltre 1,3 miliardi di cittadini indiani e per l’industria nazionale – sempre bisognosa di importare energia – i bacini idrici dell’Afghanistan costituiscono una risorsa inestimabile. Il solo fiume Kabul, che bagna l’omonima capitale, ha una portata di 4,7 milioni di metri cubi d’acqua. Per questo Delhi ha inviato in Afghanistan un pool di ingegneri ed esperti maggiore anche di quello della Cina, nota per essere leader mondiale nel comparto. Ed è per lo stesso motivo che il più numeroso corpo consolare in tutto l’Afghanistan è indiano. Tra Kabul e altre città afgane, non ci sono governi con una rappresentanza diplomatica così massiccia quanto quella indiana. Al momento sono una dozzina le dighe progettate dai tecnici di Delhi e prossime all’inaugurazione.

Entrare in Afghanistan significa inoltre avvicinarsi all’Iran. E questo è stato il tema cruciale dello scambio di opinioni con i vertici dell’Amministrazione Obama. Con Teheran Delhi non ha alcuna intenzione di rompere i rapporti. Sulla falsariga di Cina e Russia, il suo comparto industriale non può permettersi di rinunciare al petrolio degli Ayatollah solo perché questi stravedono per il nucleare. Le forniture di greggio iraniano al subcontinente sono arrivate a 12 miliardi di dollari lo scorso anno e coprono il 10% del fabbisogno energetico indiano. Certo, la Clinton si è fatta strappare dai ministri di Singh la promessa di una riduzione degli approvvigionamenti dagli Ayatollah. Ma non ci si dovrà stupire se, in un futuro non così lontano, l’India dovesse tornare sui propri passi. Non per nulla a marzo l’India ha deciso di pagare in rupie il 45% di petrolio importato dai pozzi iraniani (1). Questo per bypassare anche euro e dollari e ingessare i rapporti in maniera strettamente bilaterale.

Gli Usa sanno che se non saranno gli indiani a mantenere i rapporti con Teheran, lo faranno comunque la Cina e la Russia. Quindi, tanto vale che quello che a Washington è visto come un gioco sporco lo faccia un alleato e non un concorrente. Alla complessità di queste logiche, si aggiunge il fatto che le ambizioni nucleari iraniane sono volte proprio a creare un dialogo alla pari Iran-Pakistan-India. Il primo, nutrito di orgoglio persiano e rivalsa sciita, non può sopportare di confrontarsi con i propri vicini a est con un’arma strategica in meno. In merito, si conosce la posizione degli Usa, ma non quella indiana. Il silenzio lascia pensare a un assenso sottobanco. È plausibile che a Delhi siano convinti che Teheran arriverà a dotarsi di un arsenale strategico non così a breve come si teme altrove. Quindi, in linea con l’ascetico temporeggiamento del subcontinente, se il problema non è immediato, non è il caso di preoccuparsene.

In Afghanistan per entrare in Iran. Il piano funziona sia per gli Usa che per l’India. Ed è così che si consolida la vera novità nella geopolitica post guerra fredda. Un’alleanza che, per molti aspetti, non si poteva prevedere. La Cina, Kissinger docebat, sarebbe prima o poi arrivata al suo zenit di potenza. Ma il connubio est-ovest, come quello che si sta celebrando in questi anni, in pochi l’avrebbero messo in lista. Sono passati decenni dal non allineamento promosso dal premier Jawaharlal Nerhu e poi revisionato da sua figlia Indira Gandhi. Nessuno dei due riuscì a conquistare i cuori degli inquilini della Casa Bianca e tanto meno a farsi sedurre dagli stessi. Ma il mondo cambia. E questo matrimonio ha tutto l’aspetto di un’unione di convenienza. Resta da capire chi sia il vero beneficiario. Se l’Occidente in crisi che si appoggia a una superpotenza giovane e dinamica, oppure l’India che si non fa scrupolo a tessere una tela che ricopre grosse porzioni d’Asia.

(1) R. Rakesh – R. Roy, “India in Talks With Iran on Crude Supply”, Financial Times, 28 marzo 2012.