Quali sono i rischi di una politica (quasi, ci sono le rinnovabili) solo importatrice in campo energetico, qual è diventata dopo il referendum sul nucleare quella italiana? Ecco le nostre risposte alle domande di Oggiscienza (1).
Partendo dalla cronaca di questi ultimi mesi, quanto incide il conflitto libico in termini di approvvigionamento energetico nel nostro Paese?
Non si è visto un grande mutamento. Si abbiano due paesi, uno con una produzione e delle riserve di petrolio modeste (la Libia), l’altro con una produzione e delle riserve di petrolio cospicue (l’Arabia Saudita). Si abbia anche, nei paesi compratori, una domanda di petrolio rigida. Essa può diventare elastica, ma dopo qualche tempo. Si abbia infine, sempre nei paesi che comprano il petrolio, un magazzino dove è stipato il petrolio estratto.
Si abbia ora uno shock politico in Libia. Il quale shock ne riduce la produzione di petrolio. Come reagirà il prezzo del petrolio? Se la domanda è rigida, si ha un balzo del prezzo, attenuato dal petrolio che esce dai magazzini (quali sono anche le riserve strategiche) dei paesi consumatori. Se la produzione libica resta – sempre per effetto dello shock politico – ridotta per un tempo prolungato, allora il prezzo del petrolio torna a salire, man mano che ci si avvicina all’esaurimento del magazzino.
Potremo assumere che l’Arabia Saudita entri in azione prima che i magazzini siano esauriti e prima che cambi la curva di domanda dei paesi produttori. L’Arabia Saudita offre una quantità di petrolio pari alla minore quantità offerta dalla Libia. In questo caso, l’offerta è identica a quella iniziale e il prezzo torna dov’era. Per tornare dov’era si deve supporre che il petrolio saudita e quello libico siano fungibili, ossia della stessa qualità, oppure che gli impianti di raffinazione siano in grado di lavorarli entrambi fin da subito.
Il ragionamento – se corretto – non mostra ancora un vero pericolo. A meno che la capacità produttiva inutilizzata dell’Arabia non sia inferiore a quella stimata, oppure a meno che una quota crescente della produzione saudita non sia assorbita dai consumi interni.
Quale interesse avrebbero mai i paesi produttori a non vendere il loro gas? Nessuno, essi importano quanto serve loro grazie alla vendita di gas. Il ragionamento è quello dell’interesse reciproco. Se non vendono il gas, non hanno la valuta per importare. Dunque potrebbero minacciare un blocco delle forniture solo nel caso di un vero scontro politico militare, che però non si intravede.
Si tenga inoltre conto che i paesi produttori finanziano la propria spesa pubblica con gli introiti energetici. Non si hanno paesi con un sistema fiscale diffuso che paghi la spesa pubblica (tranne ovviamente i paesi produttori avanzati, come, per esempio, gli Stati Uniti e la Norvegia). Il prezzo del petrolio intorno agli 80 dollari al barile finanzia la loro spesa pubblica. Sotto non la finanzia, sopra si hanno dei sovra introiti. I produttori non hanno interesse a tagliare le vendite per periodi prolungati, perché non hanno un’economia capace di generare imposte. Va poi ricordato che non si riesce ad avere una «tassazione senza rappresentanza politica». E i produttori di materie prime sono quasi sempre paesi autocratici. Dunque è facile che restino aggrappati alla loro «rendita» politica.
In seguito alla crisi petrolifera degli anni Settanta, molti dei paesi occidentali si erano orientati verso la privatizzazione delle società di settore nella convinzione che l’energia non fosse così diversa da ogni altra merce o servizio e che, applicando le leggi di mercato, si sarebbe scongiurato il rischio di una nuova emergenza. Una visione miope che non ha messo a fuoco un sistema ben più complesso?
Della serie la politica vede «lungo» e il mercato vede «corto»? Anche i mercati possono giudicare le situazioni complesse, e, naturalmente, possono sbagliarsi, tanto quanto i politici. In ogni modo, si possono varare delle politiche energetiche che instradino le imprese private e i mercati.
Sulla questione energetica l’Europa non sembra avere proprio le idee chiare: il caso «Nabucco» ha rappresentato un pericoloso antecedente. La Russia tiene davvero sotto scacco il Vecchio Continente? Oppure è l’Europa che trae maggiori benefici dal fatto che, a causa dei deteriorati rapporti con Cina e India, Mosca non avrebbe altri acquirenti all’infuori dei mercati europei?
Anche qui vale il ragionamento della «cooperazione». La Russia ha un Pil che è simile a quello dell’Italia, quindi intorno a 1,5 mila miliardi di euro. Il Pil dell’Europa (area euro e non euro) è intorno a 15 mila miliardi di euro. Come possa un’economia – peraltro legata alle sole materie prime – tenere in scacco un’economia grande dieci volte sfugge alla (almeno mia) comprensione. La Cina ha un Pil che è un terzo di quello europeo, e l’India ancora meno. Insomma, si esagera l’importanza dei paesi emergenti. Stanno crescendo moltissimo, ma economicamente sono ancora piccoli in termini assoluti, figurarsi in termini pro capite. Certo, sono «energivori» e quindi per ogni punto di Pil in più consumano più energia di ogni punto di Pil in più dei paesi emersi. E dunque trascinano molto la domanda di materie prime e producono più inquinamento.
Con l’85% delle importazioni, il nucleare messo nel cassetto, il dibattito sui benefici delle rinnovabili sempre aperto, è possibile ipotizzare che l’Italia continui la sua «non strategia» in campo energetico? Quale sarebbe il prezzo da pagare in termini di autonomia politica nei confronti dei Paesi esportatori? E in termini di credibilità internazionale?
Il ragionameno sull’autonomia e la credibilità era vero una volta, quando gli stati-nazione si combattevano per il controllo delle materie prime. Ma oggi? Se cooperiamo con la Francia che ha il nucleare, con altri che hanno il gas, altri il carbone, eccetera, in un mondo di interessi prosaici non vedo quale possa essere il vero problema.
(1) http://oggiscienza.wordpress.com/2011/06/30/non-solo-nucleare-2/
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