Il manifesto del femminismo moderno è quello firmato da Sheryl Sandberg, potente dama della Silicon Valley che nel libro “Facciamoci avanti” (1) dice che le donne possono avere tutto, famiglia e carriera, ma devono imparare a chiedere, a pretendere, rinunciando al loro sistematico piagnisteo. La risposta a questo femminismo gagliardo, tubino nero e computer rigorosamente spento dopo le 18 per non rinunciare al “quality time” con i bimbi, è quello delle cosiddette neo tradizionaliste, le “retro wife” celebrate dal New York Magazine (2) che non vogliono farsi avanti, ma piuttosto si fanno indietro, lasciano il lavoro e preferiscono dedicarsi ai corsi di maglia e all’homeschooling dei piccoli di casa. Ma in mezzo a queste due scuole, scrive la professoressa della Boston University Lilian V. Faulhaber (3), ci sono problemi ben più seri: le tasse, per esempio.

Le imposte in America sono strutturare con un pregiudizio positivo nei confronti delle famiglie in cui un genitore lavora e l’altro sta a casa (l’altro è tendenzialmente la donna), ma non è scoraggiante a tal punto da impedire a entrambi i coniugi – o conviventi – di lavorare. “Quel che davvero scoraggia un genitore dal lavorare è il trattamento fiscale riservato ai figli”, scrive Faulhaber. Le mamme che lavorano devono pagare qualcuno perché si occupino dei figli: se guadagnano tantissimo o se guadagnano pochissimo la cosa non ha grande impatto. Ce l’ha invece per le mamme della middle class perché a seconda del reddito cambiano le facilitazioni fiscali e il più delle volte se uno dei due genitori non lavora (tendenzialmente quello che guadagna di meno, quindi la donna) il peso fiscale è più leggero.

Il beneficio fiscale supera, in parole povere, il beneficio di un altro reddito in casa, al netto delle spese per la cura dei figli, e questo finisce per convincere il partner che guadagna di meno (tendenzialmente la donna) a non lavorare affatto. L’impatto a lungo termine di queste decisioni è grave, e secondo Faulhaber bisognerebbe cambiare le regole, adottando un sistema di sussidi per la cura dei figli come avviene in Scandinavia o alleggerendo il peso fiscale su queste spese: sono riforme difficili da fare oggi, conclude la professoressa, “ma prima di dire alle donne di farsi sotto, bisognerebbe evitare di avere un sistema di imposte che le spinge fuori”.

Anche in Inghilterra si discute di questo tema. Se nel budget proposto il 20 marzo dal governo Cameron ci sono politiche per le mamme che lavorano, gran parte delle mamme che stanno a casa (sono circa due milioni di donne, nel Regno Unito) è esclusa dalle facilitazioni – cioè converrà loro stare a casa per sempre. La giustificazione del governo è che vuole premiare l’“aspiration”, l’ambizione e la progettualità degli individui, ma per le associazioni delle mamme che non lavorano (sì, esistono) la motivazione è quasi più deprimente della politica in sé: come si fa a essere ambiziosi se lo stato già non fa nulla per alimentare le tue ambizioni? Si può rispondere che non è lo stato a doversi occupare delle ambizioni, ma certo è che i sistemi fiscali, per le mamme come per le aziende e come per tutti gli attori economici, condizionano i comportamenti delle persone, e nulla è paradigmatico come il lavoro delle donne: se conviene di più che sia la mamma a occuparsi dei bambini piuttosto che lavorare, non c’è ambizione che tenga, la mamma starà a casa.

Nella rivolta delle mamme si consuma trade off per le donne tra famiglia e carriera, e nonostante i tanti inviti a non lasciare che a decidere siano i datori di lavoro sempre ostili alle maternità o, peggio, i sensi di colpa, non è stato ancora sciolto il quesito di fondo. Il lusso, per le mamme, è stare a casa a occuparsi dei figli o andare a lavorare? E all’economia che cosa serve di più, la mamma in carriera o la mamma a casa? I figli una risposta ce l’hanno, ma non è detto che sia quella economicamente più sostenibile.

(1) http://www.nytimes.com/2013/04/04/opinion/lean-in-what-about-child-care.html?ref=opinion&_r=0

(2) http://nymag.com/news/features/retro-wife-2013-3/

(3) http://www.nytimes.com/2013/04/04/opinion/lean-in-what-about-child-care.html?ref=opinion&_r=0