I mercati finanziari hanno una tendenza e sono interconnessi. Per uscire dalla crisi, la politica economica è diventata espansiva. In particolare, quella monetaria è diventata ultra espansiva, contribuendo a spingere i Paesi fuori dalla crisi. I suoi effetti si sono riverberati sulle obbligazioni, che, in alcuni Paesi, hanno raggiunto dei rendimenti minimi. Essi potrebbero spingere all'acquisto di azioni, anche nel caso in cui gli andamenti delle imprese non fossero così brillanti da giustificare un forte rialzo dei prezzi. La tendenza e l'interconnessione dei mercati finanziari potrebbe alla fine generare una “bolla” in campo azionario, alimentata dallo sgonfiamento della “bolla” in campo obbligazionario.
1- Condizioni normali e anomale
Si entra in recessione quando il reddito corrente è di molto inferiore a quello di piena occupazione. Si ha quindi il rilancio fiscale e monetario. L’inflazione può palesarsi quando ci si avvicina alla piena occupazione della manodopera e degli impianti. A quel punto la banca centrale alza i tassi, e ferma la crescita dei prezzi. Inoltre, con la ripresa, il bilancio pubblico si aggiusta in modo automatico, perché vengono meno le spese per i sussidi di disoccupazione mentre aumentano le entrate fiscali. In condizioni “normali”, un Paese con un'economia sofisticata – a differenza di uno con un'economia poco sviluppata (vedi BOX 1) – molto difficilmente cade in una recessione prolungata e nell'inflazione.
Se, invece, le condizioni fossero “anomale”, che cosa succederebbe? Definiamo come “anomala” una condizione di indebitamento insostenibile delle imprese e/o delle famiglie, che, per ridurre il debito, debbono tagliare gli investimenti e i consumi. Per evitare l’avvitamento dovuto alla caduta della domanda da investimenti e consumi, il bilancio pubblico va in deficit e la politica monetaria è espansa, non solo attraverso il taglio dei tassi praticati alle banche di credito ordinario – la politica monetaria “ortodossa” - ma anche con l’acquisto da parte della Banca Centrale delle obbligazioni private e del Tesoro – la politica monetaria detta “non ortodossa”, o anche del Quantitative Easing. È perciò “monetizzato” parte del debito non acquistato dai mercati, perché il residuo è comprato dalla Banca Centrale.
Lo schema esposto, come vedremo meglio, vale, nelle condizioni attuali, per gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Giappone, e in misura minore per l'Euro-area, dove i bilanci pubblici tendono al pareggio, con la Banca Centrale che non interviene comprando in maniera sistematica e diretta le obbligazioni che i privati non desiderano.
2- Di bolla in bolla
Il cuore delle politiche monetarie in condizioni anomale è il Quantitative Easing (QE), che segue questo meccanismo. 1) la Banca Centrale acquista i titoli che hanno una vita residua lunga. Sono resi liquidi i bilanci delle banche, perché queste ultime sono le principali destinatarie del QE in quanto venditrici di titoli. In questa prima fase - coincidente con la crisi del credito e la recessione economica - le banche utilizzano la liquidità incassata depositandola presso la Banca Centrale a tassi molto bassi - il tasso della banca centrale sulle riserve in eccesso. 2) nella seconda fase - quando il ciclo del credito dà segni di miglioramento e l’economia comincia a riprendersi - le banche cominciano a ritirare i depositi che hanno presso la banca centrale per finanziare gli impieghi verso le imprese e le famiglie, mentre la Banca Centrale comincia a ridurre la propria esposizione verso i titoli a lungo termine, vendendola sui mercati, o attendendone la scadenza. 3) nella terza fase - quando il ciclo del credito si è pienamente ripreso e l'economia è ormai in crescita - la banche smettono di depositare riserve in eccesso - quelle che vanno oltre le obbligatorie - presso la Banca Centrale, che, a sua volta, riporta il proprio portafoglio titoli verso dimensioni fisiologiche.
Dunque anche ragionando con delle condizioni “anomale” e non con quelle “normali”, a meno che la Banca Centrale non alzi i tassi e non venda i titoli che detiene durante o addirittura dopo che l'economia si è avvicinata alla piena occupazione, si è in grado di uscire dalla recessione e non si ha inflazione. Quest'ultima si avrebbe se la grande liquidità creata in precedenza non fosse assorbita dalla Banca Centrale, quando l'offerta di beni e di lavoro è diventata rigida, perché si è usciti dalla recessione.
Vero quanto fin qui detto, il problema non è oggi l'inflazione nei mercati “reali”, ma la compressione dei rendimenti delle obbligazioni, che si è intanto prodotta, compressione che potrebbe alimentare l'inflazione nei mercati “finanziari”.
Non si è avuto solo l'intervento in acquisto di obbligazioni da parte delle Banche Centrali. Anche i fondi pensione e le assicurazioni hanno comprato molte obbligazioni – più precisamente, hanno una quota di obbligazioni maggiore di quanto abbiano avuto prima della crisi – e lo hanno fatto per il timore che la volatilità delle azioni possa metterle in difficoltà nell'erogare quanto dovuto alla scadenza. Lo hanno fatto sia per convinzione propria sia per l'imposizione dei regolatori. Hanno perciò venduto così tante azioni e comprato - insieme alle Banche Centrali - così tante obbligazioni da schiacciare i prezzi delle prime e alzare quelli delle seconde. Il risultato della "fuga dal rischio" degli investitori istituzionali negli anni scorsi è che oggi il rendimento delle azioni (dividendo su prezzo) è circa eguale a quello delle obbligazioni (cedola su prezzo).
I rendimenti delle obbligazioni sovrane a lungo termine – i Treasury Bonds, i Gilts britannici, i JGB nipponici – hanno, infatti, un rendimento intorno o inferiore al due e mezzo per cento. Un rendimento privo di rischio emittente, perché alla scadenza questi titoli saranno rimborsati. Si ha per contro un rischio tasso, perché, se i rendimenti salissero, i prezzi dei titoli emessi cadrebbero.
I rendimenti correnti sono intorno al due e mezzo per cento, un'anomalia, la media storica dei rendimenti dei Treasury Bonds è, infatti, intorno al cinque per cento. Perciò, se i rendimenti a lungo termine salissero verso la media storica, i prezzi delle obbligazioni emesse cadrebbero del 25% circa. Intanto, i rendimenti delle obbligazioni private a lungo termine di modesta qualità – i cosiddetti "Junk” Bonds – sono appena sopra al cinque per cento, esattamente quanto era il rendimento dei Treasuries ante crisi, quindi nel 2007. I “Junk” Bonds incorporano sia un rischio emittente sia un rischio tasso, e perciò con le quotazioni correnti sono molto più pericolosi.
Insomma, i mercati finanziari hanno corso "troppo", alzando i prezzi (schiacciando i rendimenti, perché la cedola è fissa e dunque il rendimento scende quando il prezzo sale) delle obbligazioni sovrane e private di alcuni Paesi al punto che questi, prima o poi, non potranno che cadere (per alzare i rendimenti), generando delle forti perdite per chi le detiene. Gli investitori potrebbero perciò uscire dalle obbligazioni e comprare azioni, come in parte sta già avvenendo, ma queste non sono così a buon mercato - il loro rendimento (dividendo su prezzo) è attraente perché quello delle obbligazioni (cedola su prezzo) è particolarmente basso - e dunque una forte crescita dei loro prezzi le allontanerebbe dai fondamentali, ossia del reddito – gli utili e i dividendi - che le imprese producono, con ciò alimentando una "bolla".
Vero quanto detto, non avremmo l'inflazione nei mercati reali, ma una forte crescita dei prezzi nei mercati finanziari. Più precisamente, dopo avere avuto dei prezzi molto alti delle obbligazioni, si passerebbe a dei prezzi molto alti delle azioni. Ben Bernanke, il governatore della Banca Centrale degli Stati Uniti, nel mese di maggio, ha messo sul "chi vive" i mercati finanziari, perché questi ultimi potrebbero aver aperto – nella ricerca dei rendimenti - delle posizioni troppo rischiose. Il monito ricorda quello, molto celebre, del governatore precedente, Alan Greenspan, che, nel 1996, affermò che i mercati avrebbero potuto prendere una piega che assomigliava ad una "esuberanza irrazionale" (vedi Box 2).
3- La tentazione delle politiche economiche estreme
Torniamo alle politiche economiche, tralasciando i problemi legati alla formazione delle due bolle, una, quella in corso nel campo delle obbligazioni, e l'altra, quella potenziale nel campo delle azioni. Bolle o non bolle, si sono prodotti dei gran debiti pubblici. E qui arriva la politica. La tentazione di usare la politica economica nelle sue forme “estreme” (i bilanci pubblici in forte deficit e il Quantitative Easing) ha molti seguaci Lungo l'Atlantico come Laddove Sorge il Sole, ma meno seguaci nell'Euro-area, dove albergano i nemici dei bilanci pubblici in espansione perenne.
Chi più chi meno, tutti i Paesi non riescono a contenere i deficit e a evitare di accumulare debito. La crescita perpetua del debito è, infatti, il luogo dove si materializza la ricerca del consenso sociale e politico. La politica economica estrema è perciò una tentazione sempre presente, che non solo ha un'origine teorica precisa, ma è anche un'opzione politica che consente di “comprare tempo”.
Le politiche economiche ultra espansive producono nuovo debito pubblico e sono volte a rilanciare l'economia per uscire dalla trappola del debito privato cumulato - come è il caso del Giappone, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Insomma, “il debito caccia il debito” non è un paradosso, ma un ragionamento macro-economico (vedi Box 3). Il costo politico dell'austerità è elevato, come si vede dalla battaglia politica in corso. Sorge perciò la tentazione di maritare una politica fiscale molto espansiva con una politica monetaria molto accomodante. Quasi tutti i Paesi hanno spese crescenti e entrate meno “vispe”. Il deficit che ne scaturisce crea del debito che però è comprato (negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Giappone) dalla Banca Centrale. La Banca Centrale può anche rendere al Tesoro le cedole (come accade in modi diversi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) e dunque si ha un debito crescente con un costo compresso.
Il debito pubblico crescente, se spinge la crescita, aiuta a uscire dalla trappola del debito pubblico e privato, mentre non ha un costo politico immediatamente visibile, e perciò non si deve riformare a fondo e subito la struttura delle spese e delle entrate dello stato. Si compra tempo, e, poco modificando, si ha un consenso “facile”. L'austerità dell'Euro-area, invece, non compra tempo, e, cercando di modificare la struttura delle uscite e delle entrate, non ha un un consenso “facile”. L'Euro-area è affetta da un incurabile masochismo? Non necessariamente. Lo si vede estendendo l'orizzonte temporale delle politiche economiche estreme.
Le politiche economiche ultra espansive producono una “curva dei rendimenti” (la disposizione per scadenza dei tassi e dei rendimenti) compressa, che, a meno di durare per decenni, è molto pericolosa. Che cosa accadrebbe, infatti, se si alzasse? Il costo del debito pubblico – il cui volume è intanto cresciuto moltissimo - emergerebbe, e il bilancio pubblico si troverebbe a dover pagare degli oneri da interesse molto alti, come è accaduto in Italia prima dell'adesione all'euro, quando il debito costava il dieci per cento del PIL (oggi costa la metà). Questa combinazione di un costo maggiore per un debito cresciuto moltissimo implica per il bilancio pubblico il dover ridurre la spesa negli altri ambiti, a meno di spingere i percettori di cedole verso l'eutanasia. Con questo termine si intende lo schiacciare la forza negoziale dei detentori di capitali detti “improduttivi”, un dibattito nato negli anni Trenta e risorto con la crisi in corso.
4- Tripartizione delle scelte politiche
Da qui il bivio: con dei rendimenti “normali” del gran debito pubblico – ossia con oneri finanziari elevati che potrebbero prima o poi palesarsi (vedi Box 4) - o si giunge ad avere un surplus primario elevato – le entrate che sono maggiori delle uscite ex interessi – in grado di pagare gli oneri finanziari, oppure si comprimono gli oneri finanziari stessi - la cosiddetta “repressione finanziaria”, vale a dire l'imposizione ai fondi pensione, alle assicurazioni, e alle banche di quote di titoli pubblici con rendimenti bassi.
Alla fine qualcuno pagherà i costi dell'aggiustamento dei bilanci pubblici. Nel Secondo Dopoguerra la combinazione di una grande crescita (unita, in alcuni casi, alla “repressione finanziaria”) ha consentito di mettere sotto controllo i debiti pubblici. La gran crescita del Secondo Dopoguerra oggi è molto improbabile – non si hanno a disposizione le grandi innovazioni di allora - perciò chi pagherà di più e chi di meno sarà deciso nell'arena politica.
Quale combinazione è la più probabile?: a) i cittadini come fruitori di servizi pubblici ridotti, i cittadini con maggiori imposte, i cittadini come sottoscrittori di obbligazioni che rendono meno del tasso di inflazione è lo scenario “indeciso”. b) i cittadini come fruitori di servizi pubblici ridotti, i cittadini con minori imposte, i cittadini come sottoscrittori di obbligazioni che rendono più del tasso di inflazione è lo scenario “di destra”. c) i cittadini come fruitori di servizi pubblici poco ridotti, i cittadini con maggiori imposte, i cittadini come sottoscrittori di obbligazioni che rendono meno del tasso di inflazione è lo scenario “di sinistra”.
Box -1 Per un paese in via di sviluppo è difficile evitare sia la recessione sia l’inflazione. Come economia aperta e poco competitiva, in caso di crisi, si può persino avere la scomparsa improvvisa di interi settori. Inoltre, si hanno crisi bancarie profonde, ed anche ondate di “malgoverno”, come l’espropriazione delle pensioni. Non esiste di conseguenza, come nei Paesi sofisticati, una quota di reddito stabile anche in presenza di crisi. L’inflazione da dove mai viene fuori? Il deficit pubblico degli emergenti nei periodi di crisi è subito espanso attraverso la creazione di moneta e non con l'emissione di obbligazioni, perché i mercati finanziari “evaporano”. La moneta in circolazione perciò aumenta ben oltre quella desiderata. Il prezzo della moneta in termini di beni scende, e perciò si ha inflazione. La politica monetaria può diventare restrittiva, ma manca la conoscenza statistica dell’economia per dire quando e quanto si deve intervenire.
Box 2 - Quattro anni dopo il monito sulla “esuberanza irrazionale”, ci fu lo scoppio della bolla della tecnologia, nota anche come bolla del Nasdaq - il mercato dove si scambiano i titoli delle imprese non consolidate. I prezzi delle imprese tecnologiche erano – almeno dal 1995 - molto alti rispetto ai fatturati e agli utili, perché scontavano un futuro roseo. Il futuro roseo si è palesato, e infatti oggi tutti abbiamo i telefonini e siamo collegati in rete. Dunque perché i prezzi delle azioni tecnologiche sono in media crollati? Si credeva allora che le imprese tecnologiche si sarebbero trasformate velocemente in oligopoli, e dunque che avrebbero potuto estrarre delle rendite (ossia dei redditi che si formano in mercati non perfettamente concorrenziali), rendite che sarebbero finite nelle tasche degli azionisti. Invece, le rendite non si sono formate, perché la forte concorrenza le ha impedite, e la bolla, attraverso cui si finanziavano gli investimenti, è andata a vantaggio del consumatore. E' una vittoria di quegli economisti che pensano che i profitti siano temporanei, e che, alla fine, il sistema premia il consumatore.
Box 3 - Secondo Richard Koo – capo economista di Nomura Research - il Giappone non è entrato in depressione, nonostante la caduta dei prezzi delle attività immobiliari, negli anni Novanta, ma ha sperimentato una crescita nulla, perché aveva capito dov’era il problema, che possiamo etichettare come lo “sciopero del debitore”. Nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e, se nessuno vuole il credito, l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata, ossia non basta mantenere bassi i tassi di interesse praticati dalla banca centrale. Resta la spesa pubblica, per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato.
Koo sostiene che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001.
E dunque le politiche ultra espansive sono benvenute, finché non riparte il credito. Il Giappone ha deciso di usare nel 2012 l'”arma finale”: la Banca Centrale espanderà oltre misura il proprio intervento in acquisto delle obbligazioni emesse dal Tesoro. In questo modo, iniettando molta moneta nel sistema, il Giappone conta di capovolgere le aspettative. Se la moneta che entra copiosa nel sistema produce inflazione invece che deflazione, si capovolgono le aspettative. Se la variazione del livello dei prezzi da negativa (deflazione) diventa positiva (inflazione), i consumi non hanno ragione di essere post posti: se so che i prezzi calano, aspetto a comprare, se so che salgono, compro subito. Inoltre, il Giappone può continuare ad avere un gran deficit pubblico, perché le obbligazioni che il Tesoro emette non hanno un vero costo, in quanto, come abbiamo visto, sono assorbite dalla Banca Centrale. In conclusione, si ha una politica monetaria ultra espansiva combinata con una politica fiscale ultra espansiva.
La politica monetaria ultra espansiva del Giappone schiaccia i rendimenti a lungo termine del debito pubblico – precisamente li schiaccia sotto il tasso di inflazione programmato che è del 2% – e perciò spinge all'indebolimento dello yen, perché i capitali escono copiosi dal Giappone alla ricerca di rendimenti maggiori. I Giapponesi possono così guadagnare due volte: una cedola maggiore sulle obbligazioni altrui, oltre a un cambio favorevole, perché lo yen, se tutti escono dal Giappone, si deprezza.
Box 4 - Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali si avrebbero - in caso di rialzo dei rendimenti – delle perdite notevoli (grafico I.3 pagina 9: http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2013e1.pdf ). Nel caso del Giappone, che ha un debito pubblico pari al 200% del PIL – si avrebbe una perdita in conto capitale sullo stock di obbligazioni pari al 40% del PIL. Per l'Italia la stima è pari al 20% del PIL. La Banca dei Regolamenti stima gli effetti di un rialzo del 3% assoluto di tutta la "curva dei rendimenti", ossia 300 punti base. Secondo il Fondo Monetario (IMF, Global Financial Stability Report, Ottobre 2013, pagina 21, Tavola 1.2) si ha un portafoglio mondiale di obbligazioni (lo stock) del valore di 40 mila miliardi di dollari, con una durata finanziaria di sei anni. Il risultato dei loro conti è che per ogni uno per cento assoluto di rialzo di tutta la curva dei rendimenti, ossia 100 punti base, si avrebbe una perdita di poco meno del 6% del valore dello stock.
© Riproduzione riservata