Si considerano i tre mercati peggiori, quello statunitense degli anni Trenta del secolo scorso, quello giapponese dal 1990, quello statunitense della tecnologia dal 2000. Li si fa partire da zero, il momento del picco. Si toglie il tasso d’inflazione, ma non si includono i dividendi (1).
Insomma, si considerano i «corsi secchi» aggiustati per l’inflazione. Se il futuro ci riserva una ripresa a «V» (ossia una caduta e una ripresa veloce), allora non sono questi i mercati che ci interessano. Se il futuro non ci riserva una ripresa, ma solo un andamento a «L» (ossia una caduta e un andamento piatto per anni e anni), sono questi i mercati che ci interessano.
Dopo dieci anni il mercato giapponese, la linea rossa, era ancora sotto il livello iniziale di picco dell’50%. Lungo il percorso è balzato molte volte, ma i balzi non hanno scosso la tendenza. Lo stesso si può dire per il Nasdaq, la linea verde. (Le vicende in corso sono segnate dalla linea blu).
Il senso del grafico è che non sono i rimbalzi dei prezzi in sé il segnale che si sta uscendo da una crisi prolungata: questi si sono sempre avuti. Infatti, sono chiamati bear market rallies, ossia ascese durante i mercati in «orso». (Si dice «orso» perché l’orso attacca dall’alto, si dice «toro» perché il toro attacca dal basso; nel primo caso si è schiacciati, nel secondo si è spinti verso l’alto).
Si esce da una crisi quando gli utili delle imprese quotate salgono per davvero e i prezzi delle azioni non sono alti in partenza, mentre i rendimenti delle obbligazioni emesse dal Tesoro non salgono troppo. Altrimenti si hanno dei rimbalzi, ma non un trend. Vedremo se quello in corso è un bear market rally oppure l’inizio di un bull market.
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