È in corso, in queste settimane, una discussione tra i due maggiori standard setter a livello mondiale, il FASB (1) e lo IASB (2), una discussione sull’opportunità di estendere l’utilizzo del fair value, oltre che ai titoli detenuti per la vendita, e quindi giustamente valutati al prezzo di dismissione, anche ai titoli cosiddetti held to maturity (da detenere fino a scadenza) (3). Il principio del fair value è la principale alternativa al metodo del costo storico: in estrema sintesi, il primo prevede che un asset detenuto da una società venga valutato a un valore di mercato, mentre il secondo prevede la valutazione al costo sostenuto al momento dell’acquisizione (o della realizzazione interna) al netto di eventuali ammortamenti. La discussione, al di là dell’aspetto considerato in queste settimane, è rilevante per almeno due motivi.


Innanzitutto, perché si inserisce nel dibattito sull’identificazione di sistemi di financial reporting universalmente riconosciuti e in grado di fornire ad analisti e investitori una fotografia fedele dello stato economico, finanziario e patrimoniale delle società quotate sui mercati dei capitali. Da quando, nel 2006, il FASB ha emesso il FAS 157 («Fair Value Measurement») è in corso, tra i due standard setter, una discussione serrata su quando il fair value debba essere utilizzato e su quali metodologie di misurazione siano più appropriate.

In secondo luogo, perché la recente crisi ha messo in luce alcune potenziali controindicazioni nell’utilizzo del fair value. In presenza di mercati poco liquidi (ad esempio i mercati derivati nei periodi di maggior criticità) potrebbe essere impossibile determinare il valore di un’immobilizzazione, o quest’ultimo potrebbe essere molto basso, al punto da non incorporarne nemmeno le potenzialità in termini di flussi di cassa attesi. Il fair value si è dimostrato pertanto una metodologia altamente pro-ciclica: in presenza di una congiuntura economica sfavorevole ha ulteriormente peggiorato la rappresentazione dei risultati economici e dei valori patrimoniali (soprattutto per gli operatori del settore finanziario, che detenevano un’elevata quantità di titoli il cui valore di mercato è crollato nei primi mesi della crisi).

Le normative hanno esaltato questo effetto. Il mercato avrebbe potuto anche valutare gli impatti a bilancio tenendo conto della situazione economica e non penalizzare oltre il dovuto le imprese colpite dalla diminuzione del valore degli asset. Ma le normative prudenziali in ambito bancario e le regole di Basilea 2 per quel che riguarda la concessione del credito (disegnate in base ad automatismi validi in qualsiasi contesto macroeconomico) hanno ulteriormente penalizzato le imprese già in difficoltà.

Cercando, però, di fare un passo oltre per valutare l’utilità dell’utilizzo del fair value, occorre considerarne vantaggi e svantaggi al di là dell’attuale contesto congiunturale. Un principio contabile dovrebbe favorire l’esercizio, da parte degli investitori, dei diritti informativi (conoscere quante più informazioni relative alle società in cui si sta investendo) e di stewardship (valutare la capacità del management di massimizzare il valore della società).

Rispetto al metodo del costo storico il fair value presenta indubbi vantaggi di natura informativa, in quanto permette di trasmettere al mercato informazioni relative al valore effettivo degli asset detenuti da una società finanziaria o industriale. Si tratta, però, di un valore «di rimpiazzo» (quanto varrebbe l’azienda se si decidesse di uscire dal business) e non indica quanto cash flow potrà essere generato dagli asset detenuti. Quindi fornisce agli investitori un’indicazione relativa al costo-opportunità dell’investimento (se uscissi dal business quanto potrei ricavare) e di rischiosità dello stesso (a un basso fair value corrisponde un rischio maggiore in quanto, in caso di insuccesso del business, il valore di rimpiazzo sarebbe basso). Non fornisce, invece, indicazioni circa la capacità di generare cash flow. Se prendessimo, ad esempio, quanto avvenuto in corrispondenza della «bolla» dei titoli legati alla new economy, il fair value delle aziende sarebbe stato in quel caso piuttosto basso: scarse immobilizzazioni e scarse possibilità di riutilizzo delle stesse in business alternativi. Questa indicazione non avrebbe però permesso in alcun modo di distinguere le aziende con elevate potenzialità di generare flussi di cassa futuri rispetto a quelle per cui tali proventi rappresentavano poco più che una malriposta speranza.
 
Anche per quanto riguarda il diritto di stewardship, il fair value presenta lacune evidenti. Innanzitutto non è un principio «incentive compatible»: non ci sono incentivi sufficienti a impedire che i manager determinino valori di riferimento maggiori a quelli reali per «abbellire» i bilanci. Un CEO giudicato in base a parametri che incorporino valori al fair value farà pertanto il possibile per scegliere i metodi di valutazione più favorevoli. Inoltre, per quanto sostenuto sopra, il criterio di valutazione non trasmette informazioni sulla capacità di generare flussi di cassa futuri. Paradossalmente, verrebbero premiate le società (e i loro dirigenti) che possiedono immobilizzazioni di valore utilizzandole male (e non permettendo la creazione di profitto) rispetto a società che con asset limitati riescono a creare valore per i propri azionisti. Di nuovo, tornando all’esempio della new economy, una società come Google non sarebbe probabilmente stata premiata da un utilizzo estensivo del principio del fair value. Eppure flussi di cassa ne ha generati e valore per gli azionisti ne ha creato eccome.

Ciascun principio contabile ha i suoi pro e i suoi contro. In attesa, e nella speranza, di trovare principi contabili che massimizzino l’utilità degli investitori e che allineino gli obiettivi di management e azionisti, è importante conoscere vantaggi e svantaggi di quegli standard che, a oggi, regolano i sistemi di financial reporting.



(1) Financial Accounting Standard Board
(2) International Accounting Standard Board
(3) To FASB or not to FASB?, «The Economist», 10 giugno 2010