Lo chiamavano “il grande gioco”. E per molti aspetti il nome può essere mantenuto. Anzi. L’Asia centro-meridionale abbraccia talmente tanti interessi e Paesi che mai questo nome è apparso più azzeccato. Ai tempi della regina Vittoria e degli zar, era il dominio dell’Afghanistan ad angosciare i governi di Londra e Pietroburgo. Per ragioni strategiche e commerciali: il controllo della antica via della seta. Avere in pugno il cuore dell’Asia per gli inglesi significava dormire sonni tranquilli in India. Per i russi, al contrario, voleva invece dire sognare a occhi aperti uno sbocco sull’Oceano indiano.

Oggi lo scenario è appena più complesso. Un Paese in guerra, l’Afghanistan, uno al collasso, il Pakistan, un terzo che fa la parte del cattivo e che forse tanto “canaglia” non è, l’Iran. Poi ci sono i tenori solisti: Cina, India, Russia e Stati Uniti. Aggiungiamoci l’Europa per buon cuore e perché ci ostiniamo a credere che il Vecchio continente abbia ancora qualcosa da dire a livello di politica internazionale. Infine mettiamoci la lunga lista di interessi economici. Che vanno dai più banali: nucleare e idrocarburi vari, con annesse pipeline e quindi territori da attraversare, ai meno noti: controllo dei porti e delle rotte carovaniere – sì, si chiamano ancora così – per i vari traffici commerciali. Leciti e illeciti. Diamanti, droga, immigrazione, tè, pistacchi, zafferano e ovviamente acqua.

Lo chiamavano “il grande gioco”. Oggi noi potremmo dire “il grande caos”. Però ci piace la tradizione dei nomi. Quindi restiamo legati al primo. Inoltre, vista la massiccia quantità di carne al fuoco, riteniamo opportuno semplificare le cose. L’argomento andrà avanti per un po’.

Partiamo quindi da due grandi personaggi, Jawaharlal Nehru e Zulfikar Ali Bhutto. Due protagonisti della storia dell’Asia centro-meridionale. Il primo indiano, il secondo pakistano. Vissuti quando nel grande gioco né Delhi né Islamabad avevano alcuna voce in capitolo. Eppure, è stato il carisma di Nehru e di Bhutto a fare dell’India e del Pakistan due potenze nucleari, oggi mercati emergenti a livello internazionale e quindi protagonisti dell’attuale grande gioco.

Nehru e Bhutto: i patriarchi di due grandi dinastie, i cui pesi politici hanno dettato il passo alle rispettive nazioni. Ma soprattutto i leader incontrastati di due sistemi partitici che da decenni fanno il bello e il cattivo tempo a Delhi e a Islamabad.

Perché cominciare da loro? Perché a dispetto di quel che si pensa, India e Pakistan un’anima democratica ce l’hanno davvero. Lo stesso è per l’Iran. Solo che il concetto asiatico di partecipazione popolare all’amministrazione pubblica non coincide con il nostro. Le società di questi due, tre Paesi se vi includiamo anche l’ex Persia, sono caratterizzate da una forte componente clanico-tribale. All’interno della quale sono le grandi famiglie, quindi i potentati, a comandare. Il partiti politici? Certo, in Pakistan ci sono. E in India ancora di più. Tuttavia altro non sono che casse di risonanza degli interessi e delle volontà delle dinastie al potere.

Nehru e Bhutto sono l’esempio più semplice di come girino le cose politiche in Asia centro-meridionale. Il primo è stato il padre della patria indiana. Oltre a Gandhi, ovviamente. La grande anima però ha rivestito un ruolo più spirituale che concreto nella costruzione dell’India contemporanea. Peraltro Gandhi è stato ucciso nel gennaio 1948, quindi nemmeno sei mesi dopo la dichiarazione di indipendenza. Nehru invece ha guidato il Paese, come primo ministro, per 17 anni ininterrotti. Rischiando di essere blasfemi, si può dire che Gandhi stia a Gesù come Nehru sta a Paolo di Tarso.

Per Bhutto l’ascesa al potere – e agli onori della storia – ha seguito un percorso differente. Il suo coinvolgimento nell’indipendenza del Paese, dagli inglesi prima e dall’India dopo, è in pratica inesistente. Negli anni Quaranta il giovane Zulfikar era uno studente della Berkeley University in California. Ricco di famiglia, piacente e soprattutto intenditore di single malt scozzesi. Lui: musulmano sciita!

Nehru e Bhutto hanno avuto in comune la scaltrezza di agguantare la leadership dei rispettivi partiti di appartenenza – il Congresso per il primo e il Pakistani People’s Party (Ppp) per il secondo – e averli trasformati in un’eredità familistica che ancora oggi è nelle mani dei loro discendenti.

Non è questa la sede per soffermarsi sulla storia al dettaglio dei due partiti. A noi basta mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni. Prima cosa l’impostazione socialista, alla momento della nascita – il Congresso nel 1887, il Ppp nel 1967. Un’ideologia che per molti aspetti è stata abbandonata all’atto pratico, ma che ancora ispira le campagne elettorali dei due movimenti. Socialismo condito con un forte paternalismo terzomondista e impostato sulla tecnica del voto di scambio.

Alle elezioni il candidato del Congresso o del Ppp cerca sempre di estorcere il consenso dai collegi elettorali in due maniere. Promettendo la luna, ben sapendo di non poterla agguantare, e ricambiando il favore del voto elargendo posti di lavoro all’interno della pubblica amministrazione. (Ogni analogia con il panorama italiano è puramente casuale. Pregasi di evitare le ironie.)

Questo ha generato un sistema burocratico in India e in Pakistan intrecciato indissolubilmente con i partiti di governo. In entrambi i Paesi, retti da un common law system federale che implica il voto a ogni livello della pubblica amministrazione, gli iscritti ai partiti sono rintracciabili in Parlamento, nelle istituzioni politiche locali, fino a magistratura, forze armate e diplomazia.

La prima differenza quindi tra il modello di democrazia occidentale e quello del subcontinente indiano sta nell’identità dei partiti. Immense macchine lobbistiche, che generano soldi e ne succhiano altrettanti ai cittadini. Centri di potere radicati nella società e guidati da una famiglia regnante.

Per gli approfondimenti si rimanda alle prossime puntate. (Continua-1)