Nella costruzione dell’asset allocation dei singoli e, in misura più rilevante, delle società di investimento è particolarmente importante il punto di partenza ovvero la logica che si intende seguire nella scelta di investire in diverse classi di attività. Storicamente i grandi investitori anglosassoni come i fondi pensione hanno utilizzato un modello basato sull’analisi dei ritorni di lungo periodo che permetteva di stabilire una quasi salomonica suddivisione tra azioni ed obbligazioni (60% azioni, 40% obbligazioni), in parte determinata sulla base del peso specifico delle due principali classi di attività all’interno degli indici di mercato.

Nel più recente periodo si è affermata una diversa metodologia (cosiddetta Risk Parity) basata sull’analisi del rischio in alternativa alla classica ricerca del rendimento. Il ragionamento di fondo è spiegato dalla necessità di ridurre la volatilità (ossia il rischio) dei portafogli in presenza di ritorni molto meno interessanti, rispetto alle medie storiche, della componente azionaria rispetto alla componente obbligazionaria. I fondi che hanno investito con questo approccio hanno ottenuto risultati decisamente interessanti e competitivi rispetto ai fondi pesati in maniera classica. Infatti, avendo fissato un livello contenuto di rischio massimo ed aumentando significativamente il peso sulla attività meno rischiose (tipicamente obbligazioni americane e tedesche), hanno beneficiato della forte riduzione dei tassi (ovvero aumento dei prezzi) delle classi più solide evitando gran parte delle tempeste che hanno investito le azioni o le obbligazioni più rischiose.

Il funzionamento è il seguente: la azioni hanno volatilità storica del 15%, le obbligazioni del 3%. Viene fissato l’obiettivo di volatilità al 9% per entrambi le classi (da cui Risk Parity). Evidentemente il peso del portafoglio sarà diviso a metà tra azioni e obbligazioni (0,5*15%+0,5*3%=9%). Fin qui la differenza con il modello classico 60/40 non sembra significativa. In realtà, se lo consideriamo come leva sul rischio, come è corretto che sia, le cose cambiano in quanto a fronte di un rischio obiettivo pari al 60% della componente azionaria (9/15) si assume un rischio obbligazionario ben 3 volte superiore (9/3) al valore storico. Inoltre, il fenomeno si accentua se, come accaduto, i tassi continuano a scendere insieme alla volatilità obbligazionaria provocando ulteriori vendite di azioni e di obbligazioni più rischiose e una ulteriore concentrazione sulle obbligazioni meno volatili.

Questa interessante e proficua metodologia si trova oggi a dover riflettere sulla sua sostenibilità ovvero sulla capacità di continuare ad ottenere i risultati del recente passato avendo di fronte uno scenario che sembra in parte diverso. In particolare, il rialzo dei tassi (discesa dei prezzi) delle classi a basso rischio comporta la generazione di ritorni negativi anche in misura particolarmente significativa in virtù del notevole effetto leva, senza che all’orizzonte si manifestino opportunità nuove e alternative che abbiano simili caratteristiche. Inoltre, la riduzione ulteriore dell’offerta di classi di attività con rating elevati (e la Francia ne è l’ultimo episodio) comporta la ricerca di classi alternative la cui liquidabilità è senz’altro più problematica e che nei modelli Risk Parity non viene considerata come elemento di rischio. Quest’ultimo, la scarsa liquidabilità di certe attività finanziarie, è un fenomeno che tende facilmente ad essere sottovalutato nonostante sia l’elemento più scottante durante le fasi acute delle crisi.