Questa rubrica è stata pensata per chi si deprime nel seguire le vicende del Bel Paese. Per tirar su il morale, pur sapendo di peccare, è consentito il “provare piacere nel seguire le disgrazie altrui”. In questa puntata affrontiamo la Brexit, analizzata come errore strategico, e la spesa pubblica ellenica, analizzata come il frutto di un eccesso di rappresentanza degli interessi.
1 – Brexit quale via d'uscita?
In un primo articolo dal titolo funereo: “Brexit and the prospect of national humilation” (1), si sostiene che vi sono dietro l'angolo tre tipi di umiliazione per la Gran Bretagna:
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non sapendo come negoziare di fronte ad una Unione Europea (UE) decisa ed unita, la Gran Bretagna (GB) paga una multa astronomica (2) come precondizione per il negoziato, e accetta la giurisdizione della Corte Suprema (3), nonché la libera circolazione dei cittadini della UE
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se la GB non accettasse queste condizioni, le sue merci dal 2019 sarebbero fermate alle dogane della UE e molte sue imprese si sposterebbero sul Continente
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scoperto che non vi sono alternative, la GB mesta torna nella UE, naturalmente prima pagando la succitata multa.
La GB non ha perso la Seconda Guerra come accaduto (per intero) alla Germania, (per tre quarti) all'Italia, e (per metà) alla Francia. Anzi l'ha vinta. Ergo non avrebbe potuto – come nel caso degli altri tre Paesi che hanno sperimentato invasioni e genocidi - giungere alla conclusione che la cessione di sovranità era “la” condizione necessaria per avere un futuro di pace (4). L'orgoglio britannico di “essere speciali” dura decenni (se non secoli) ed è all'origine della spinta della Brexit (5).
Qui arrivano della considerazioni di speranza: se la GB giunge alla conclusione - grazie all'eventuale fallimento della Brexit - che il suo non è, come credeva, un destino speciale, china il capo e accetta di riferire a Bruxelles. A quel punto il “destino speciale” è – almeno nell'emisfero occidentale – solo degli Stati Uniti.
In un secondo articolo anch'esso dal titolo funereo: “Britain is incapable of managing Brexit, and calamity will follow” (6), si ricorda che lo scorso anno fu celebrato un referendum poco compreso (7) dove vinse di poco – 52% contro 48% - la Brexit. In seguito cambiò il governo – fuori Cameron, lo sconfitto, e dentro May, intesa come ricambio per acquistare credibilità. Quest'ultima ha dopo pochi mesi dalla sua nomina chiamato le elezioni anticipate per legittimare la trattativa della Brexit. Elezioni che ha – come si direbbe in Italia - “non-vinto”. A oggi i Conservatori – come peraltro anche i Laburisti - sono divisi, mentre la UE è compatta dietro la linea “nessun accordo finché non ci si accorda su tutto” (8). In ogni modo, poiché si è ancora molto lontani da ogni accordo, se nel frattempo qualcuno nel Regno Unito pensasse per trarre forza ad un nuovo referendum (9), dovrebbe rendersi conto che a quel punto le divisioni entro la società britannica sarebbero ancora più marcate.
2 – Spesa e imposte in salsa greca
Sulla Grecia si dicono molte cose, di solito come denuncia di una vittima dei “poteri forti”. Ciò accade anche per la mancanza di ricerche di livello. Soccorre il libro: Stathis Kalyvas, Modern Greece: what every one need to know, Oxford UP, 2015.
La Grecia aveva raggiunto l'apice del proprio successo economico appena prima della crisi, quindi nel 2008. Il PIL pro capite (a parità di potere d'acquisto) faceva della Grecia uno dei quaranta Paesi più ricchi del mondo, mentre in base allo Human Development Index (HDI), dove si tiene conto dell'aspettativa di vita, dell'istruzione, e del reddito, la Grecia ancora era più in alto, al 26° posto. Tutto bene fino alla crisi quindi? No, perché la crescita dipendeva dal finanziamento estero del consistente deficit pubblico. Finanziamento che era reso possibile con tassi contenuti grazie all'ingresso della Grecia nell'Euro. Il quale deficit dipendeva da una spesa pubblica elevata priva di una raccolta fiscale adeguata. Una raccolta peraltro difficile da ottenere in un Paese privo di industria, ma ricco di tavernieri e liberi professionisti.
Era il sistema politico greco che comprava il consenso di un elettorato “generico” in cambio di una spesa “universalistica”, com'è quella per la sanità? No, è più complicato, perché la spesa era forzata a proprio favore da molti gruppi organizzati, ciò che rende(va) la Grecia molto diversa dai Paesi dove i gruppi organizzati che forzano la spesa sono pochi, ossia dove la società civile è meno rappresentata. La caratteristica della spesa e della raccolta fiscale greca si coglie a partire dalla “sovra-rappresentazione” degli interessi. In Grecia erano, infatti, istituite quasi duecento tasse per finanziare ventiquattro fondi pensione e fondi per l'assicurazione sanitaria a favore degli avvocati, ingegneri, medici, eccetera. Nel caso del fondo per gli avvocati, questo era finanziato con una imposta sulle transazione afferenti le proprietà pari al 1,3% del valore di ogni transazione (Kalyvas, Stathis. Modern Greece, p.167). E' come se in Italia la tuttora presente accisa per finanziare la recente guerra d'Etiopia finisse per finanziarie un fondo pensione per un gruppo professionale specifico, tanto per dire gli architetti ma solo d'interni. Fino alla crisi il Welfare greco pagava delle pensioni pari al 95% del salario medio, pensione che si incassava già a 58 anni. Nei Paesi dell'OCSE in media la copertura era del 60% del salario medio ed iniziava a 63 anni (Kalyvas, Stathis. Modern Greece, p.168).
In Grecia abbiamo – come in altri Paesi - due gruppi, che possiamo etichettare come gli “insiders” e gli “outsiders”. Insiders sono i dipendenti del settore pubblico, che non subiscono alcuno stress economico – lo stress di “mercato”, perché il loro impiego è a vita, e perché hanno dei salari e delle pensioni superiori alla media. In cambio sono tassati. Anche i liberi professionisti (fra cui gli agricoltori) sono insiders, protetti dagli stress di mercato dalle barriere all'entrata, come gli ordini professionali, e godono di fondi pensione sussidiati. In cambio possono evadere (sic). Gli altri, soprattutto di dipendenti delle imprese private sono poco protetti. I giovani a meno di avere dei privilegi dovuti ai legami famigliari, fanno parte degli outsiders. (Kalyvas, Stathis. Modern Greece, pp.169).
Abbiamo esaurito l'argomento della sovra rappresentanza che alimenta una spesa pubblica anomala? No, perché vanno ancora osservate le problematiche nascoste, quelle relative all'interazione fra integrazione economica, stato nazionale, e democrazia. Per evitare un discorso astratto, partiamo dalla vicenda pensionistica.
Le pensioni – in un sistema detto “a ripartizione”, laddove lo stato è l'intermediario fra chi lavora e chi si è ritirato, con i primi che versano le pensioni ai secondi - sono finanziate dai contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro. Anche in Grecia avviene lo stesso, ma i contributi erano pari a due terzi delle pensioni erogate prima della crisi, e sono diventati pari a poco più della metà durante la crisi. Il sistema pensionistico greco ha anche dei beni reali e finanziari, che però rendono poco, per cui, alla fine, la differenza fra le entrate del sistema pensionistico e le sue spese – con le seconde che sono il doppio delle prime - è a carico del bilancio dello stato. Se la Grecia fosse in grado di finanziare agevolmente le pensioni pur con tutte le loro distorsioni – alcuni sono privilegiati, come i pensionati statali, ed il sistema pensionistico nel complesso svolge anche il compito improprio di “stato sociale” - nessuno potrebbe dire niente.
Insomma, se i greci votano per dei governi che tengono in vita un sistema pensionistico ai nostri occhi distorto, essi esercitano la propria “sovranità”. Nel momento in cui diventano un Paese insolvente - ossia incapace di pagare il debito pubblico, debito che si è potuto accumulare grazie all'integrazione economica – ecco che debbono soddisfare le richieste dei creditori. I quali creditori vorrebbero un sistema pensionistico moderno – ossia che distribuisca solo pensioni e che non assolva altri compiti – che però esiste solo nelle economie con una base industriale forte e stato sociale diffuso. Insomma vogliono la Germania in Grecia. La democrazia esercitata in uno stato sovrano, in assenza di crisi economica, probabilmente manterrebbe il sistema pensionistico attuale, che serve molti e diffusi interessi. In questo caso, avremmo una “sovranità” che tiene in vita un sistema arcaico. La pressione a cambiare sistema spinge, invece, verso la “modernità”, ma limita la sovranità.
Abbiamo, per concludere, un altro vincolo all'esercizio della sovranità della Grecia. In Europa ci sono delle aree ricche che trasferiscono parte del reddito a quelle povere – l'Italia del Nord e quella del Sud è l'esempio famoso. Ma anche in Spagna si ha questo trasferimento tra le parti di un Paese, ed anche in Germania. La Grecia è la novità. Se, in un modo o nell'altro, alla fine la si salva, alla fine essa diventa un'area dove si avranno dei trasferimenti non all'interno dello stesso Stato, ma dagli altri Stati verso la Grecia. Si avranno così “tre grecie” diversamente finanziate: Il Meridione erede del Regno delle Due Sicilie, la Spagna della tarda Reconquista, e la Grecia propriamente detta. Qual è il punto? Non si ha una Grecia ricca che trasferisca una parte del proprio reddito a quella povera. E dunque è l'Euro-area che deve agire come se fosse una sorta di Grecia ricca. I trasferimenti sono (non troppo) facili da legittimare fra cittadini di uno stesso stato, mentre nel caso della Grecia i trasferimenti sarebbero sovra-nazionali.
1 - https://www.ft.com/content/d992b7c0-62fc-11e7-91a7-502f7ee26895
2- https://www.ft.com/content/655f8dbe-1541-11e7-b0c1-37e417ee6c76
3 - https://www.ft.com/content/a0e84cb8-6177-11e7-91a7-502f7ee26895
4 - http://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/4724-quali-scelte-per-il-regno-unito.html
6 - https://www.ft.com/content/bf0025aa-6720-11e7-8526-7b38dcaef614
8 - http://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2017/04/29-euco-brexit-guidelines/
9 - http://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/4531-i-referendum-sono-utili.html
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