Gli stati d’animo quando si entra in una crisi finanziaria sono cinque. All’inizio si nega che possa mai arrivare (denial), poi ci si arrabbia e si resta sconcertati quando si vedono i primi oscuri sintomi (anger), poi si tenta di trovare un perché, e, allo stesso tempo, si trovano delle ragioni d’acquisto (bargaining), poi si vede che le cose vanno veramente male e ci si deprime (depression) e, finalmente, visto che non si può far nulla, si accetta il fattaccio (acceptance). Nel 2007 c’erano i primi segni di crisi cui non si credeva, poi si è sospettato che potesse essere vero, ossia verso marzo, con il fallimento di Lehman, il dubbio è venuto, ma si sperava di farcela, poi ancora ad ottobre si è visto che le cose non erano semplici. Colpo finale alle speranze, a novembre si è visto che Obama non è ancora l’Uomo della Provvidenza. Elenchiamo i problemi:
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Il finanziamento degli Stati Uniti da parte della Cina continua, nel senso che i cinesi comprano ancora i titoli del tesoro statunitensi, ma il rischio che stanno correndo è certamente crescente, a causa delle enormi emissioni d’obbligazioni che il tesoro dovrà affondare nei prossimi tempi per salvare il sistema finanziario ed espandere la spesa pubblica. Secondo Paul Krugman, divenuto consigliere di Obama, sarebbe necessaria un’espansione del deficit pubblico di 600 miliardi di dollari per evitare la recessione; i rendimenti delle obbligazioni alla fine saliranno.

Gli utili del settore finanziario non potranno raggiungere i livelli degli ultimi anni perché i prodotti redditizi gli ABS, i CDO, i CDS, hanno fatto la fine nota. Inoltre, gli aumenti del capitale hanno accresciuto il numero di azioni con cui dividere l’eventuale magro utile. Il settore industriale in caso di crisi non avrà certamente degli utili ragguardevoli. Segue che la borsa non avrà il traino dei rendimenti e nemmeno quello degli utili.

Si vedono i segnali di una crisi del debito dei paesi emergenti, che coinvolgerebbero in qualche misura le banche europee (quelle italiane poco).
 
Segue che non conviene investire negli Stati Uniti e negli Emergenti né in azioni, né in obbligazioni. Si è ormai ben visto che il mercato azionario in crisi non distingue fra paesi e si muove come quello statunitense, e quindi le azioni europee seguiranno il percorso di quelle statunitensi. Le obbligazioni europee sono migliori, ma è molto difficile che i loro rendimenti non finiscano per salire, se salgono quelli statunitensi.
 
In conclusione, ancora una volta il titolo di stato a breve in euro è l’approdo, a meno di una caduta drammatica dei corsi delle azioni, che riaprirebbe i giochi. Infatti, se le azioni cadessero scontando il peggiore degli scenari, poi riprenderebbero a salire. Poniamo l’accento su “il peggiore” degli scenari, non su uno appena “brutto”. Chi ha vissuto la crisi della lira e dei BTP negli anni novanta, specialmente il 1995, sa che, dopo che si è davvero toccato il fondo, le cose si rimettono in moto.