Il campo d’applicazione della statistica ai fenomeni sociali è, come noto, molto ampio. Uno dei vantaggi delle ricerche fatte per bene è che su molti degli argomenti trattati – per esempio, quelli relativi all’emigrazione – si riduce il «tasso d’emotività» che solitamente accompagna la discussione. Un altro è che si può parlare seriamente degli argomenti di cui si è curiosi, ma di cui solitamente ci si vergogna anche solo a pensarci – quali, per esempio, se esiste una relazione fra altezza e carriera. Ci proponiamo di pubblicare – un paio di volte al mese – le sintesi delle ricerche disponibili su questi temi.

Gli antichi Greci pensavano che la bellezza rispecchiasse le virtù morali di un individuo, tanto che Omero nell’Iliade narra che il povero Tersite era disprezzato da tutti per la sua bruttezza. Esiste anche una disciplina, la fisiognomica, secondo cui è possibile capire le caratteristiche psicologiche e morali di una persona a partire dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Tale «scienza» è diventata famosa a partire dal XIX secolo grazie agli studi, tra gli altri, di Cesare Lombroso, il criminologo che sosteneva come l’aspetto fisico fornisca parecchie informazioni sul carattere di una persona e, quindi, sulla sua propensione a commettere crimini.

Amy King e Andrew Leigh, due ricercatori australiani, si sono domandati in un articolo se la bellezza dei candidati politici influenzi il voto degli elettori. Hanno preso in considerazione, come «caso di studio», le elezioni federali del 2004 e 286 candidati dei tre principali partiti, uno di sinistra e gli altri due di destra. In Australia gli elettori che si recano alle urne ricevono dai rappresentanti dei principali partiti politici un volantino con la fotografia dei candidati e con le indicazioni su come esprimere la propria preferenza di voto. A partire dalle fotografie così distribuite è stato chiesto a un campione rappresentativo dell’elettorato (in termini sia di età sia di genere), e anche a un certo numero di stranieri che non avevano mai visto i candidati in questione (in modo da evitare che il giudizio sull’aspetto fisico fosse influenzato dalla conoscenza dei candidati), di dare un voto alla loro bellezza.


L’analisi empirica sembra dimostrare che esiste una correlazione positiva e statisticamente significativa tra la bellezza e il successo elettorale di un candidato: in media, l’aumento unitario della deviazione standard della variabile «bellezza» fa crescere di 1,5-2 punti la percentuale di voti ottenuti. Il risultato non è da poco se si pensa che, nelle quattro elezioni federali svoltesi tra il 1996 e il 2004, una competizione elettorale su dieci è stata vinta con uno scarto inferiore all’1,4%. Questo significa che almeno in un caso su dieci il risultato elettorale sarebbe stato diverso se il candidato proposto fosse stato più avvenente.
 
King e Leigh distinguono poi tra candidati maschi e femmine e tra volti «nuovi» e «vecchi». L’«effetto marginale della bellezza» è maggiore per i candidati maschi e per quelli che si affacciano sulla scena politica per la prima volta. Sembra quindi essere di sesso maschile e «nuovo» il candidato del quale l’aspetto esteriore risulta importante. Il motivo della differenza di genere è dovuto probabilmente al persistere dello stereotipo secondo cui una donna bella difficilmente potrà essere anche intelligente. Il prevalere dell’effetto marginale della bellezza per i volti nuovi della politica trova la sua giustificazione nel fatto che la bellezza diventa un sostituto di altre informazioni sostanziali sul candidato.


Gli autori dell’articolo si domandano inoltre se l’aumentata probabilità di essere eletti grazie alla bellezza sia dovuta a ragioni di produttività o di discriminazione. In altre parole, si chiedono se gli elettori votino tenendo in considerazione anche la bellezza perché ritengono che possa accrescere la produttività dei politici, i quali svolgono un lavoro in cui le interazioni personali hanno un ruolo significativo, o se si tratti di un mero fattore discriminatorio. Nel primo caso, gli elettori  pensano che l’aspetto fisico possa aiutare i politici nei loro incontri pubblici, nella capacità di persuadere volta a far prevalere il loro punto di vista e nell’abilità di «bucare lo schermo» facendo passare le loro idee. Per dirla in termini economici, avere un politico di bell’aspetto sarebbe più efficiente. L’evidenza empirica suggerisce però che i rendimenti della bellezza in politica siano di natura discriminatoria piuttosto che dettata da aspettative di maggiore produttività: sarebbe la bellezza dei candidati per sé stessa, insomma, a influenzare la scelta degli elettori. Se in uno scontro elettorale Tersite, il più brutto dei Greci nell’Iliade, avesse come avversaria Mara Carfagna, considerata dal quotidiano inglese «Daily Mail» una delle rappresentanti politiche più avvenenti del mondo, il primo avrebbe, coeteris paribus, minori possibilità di vincere le elezioni rispetto alla seconda.
 
«La bellezza da sola persuade gli occhi degli uomini senza aver bisogno d’avvocati»,  scrisse William Shakespeare. Pare che questo sia vero anche in politica.