“Il 2014 in Argentina sarà un anno di forti tensioni sociali, l’importante è che si riesca a gestire un momento molto delicato come questo” spiega al Centro Einaudi il sindacalista cattolico Carlos Custer, già ambasciatore presso la Santa Sede dal 2003 al 2008. Le cause della sua preoccupazione sono quelle di tutti oggi a Buenos Aires, ovvero “un’inflazione che l’Istat argentino si è ostinato a negare dal gennaio 2007 sino a fine gennaio di quest’anno, una forte svalutazione del peso, riserve della Banca Centrale che si sono ridotte di quasi la metà negli ultimi tre anni ed una violenza crescente”.
1- Il problema dei mesi a venire: le rivendicazioni sindacali
Le previsioni di Custer sono confermate dai fatti e a dimostrazione che sarà un anno “di lacrime e sangue” sulle sponde del Rio della Plata, l’apertura dell’anno scolastico, prevista per il 5 marzo, è stata rimandata sine die a causa di uno sciopero di cui è difficile prevedere gli sviluppi. Gli insegnanti all’inizio hanno chiesto un aumento salariale addirittura del 61% mentre il governo per ora si dice disposto a concedere circa la metà, suddivisa in due scaglioni. Il risultato di questa prima contrattazione sinora è stato nullo e gli alunni di elementari e medie hanno già perso le prime tre settimane di scuola.
Un preludio significativo che fa capire come le prossime “paritarie” – così vengono definite le contrattazioni tra stato ed associazioni di categoria – dai camionisti agli operai, dai dipendenti pubblici ai controllori di volo - saranno una fonte prolifica di blocchi stradali, proteste e scontri come la brutale aggressione della Polizia contro dipendenti pubblici e docenti a Missiones, lo scorso 5 marzo. In una parola, la tensione sociale dell’Argentina nel 2014 sarà degna dei nostri peggiori autunni “caldi” a detta di gran parte degli analisti indipendenti.
2- Le cause della crisi
La presidente Cristina Kirchner ha messo in un angolo il pragmatismo ragionevole del marito Néstor, che guardava più al modello del Brasile di Lula, per cominciare ad imitare il Venezuela - di Chávez prima e oggi di Maduro. Da fine 2011 le autorità argentine hanno, infatti, prima posto un ferreo controllo sul cambio, poi, per frenare un’inflazione non dichiarata del 30% nel 2013 (per il “taroccato” Istat argentino era al 10%), hanno cercato inutilmente di controllare i prezzi al consumo. Dulcis in fundo ha continuato a sussidiare il settore energetico con un costo esorbitante per le casse statali, tentando di coprire il deficit stampando moneta a più non posso.
Il risultato disastroso si è visto, tutto assieme, nei primi due mesi del 2014 con un potere d’acquisto della popolazione che è crollato a causa dell’inflazione oramai innegabile persino dal governo (quella ufficiale è già di oltre il 7% contando solo gennaio e febbraio), il che, esteso all’anno, diventa un 40%, che quadruplica i dati dell’Istat argentino del 2013. Se poi si tiene in conto l’inflazione percepita, la cifra supererebbe addirittura il 60% annuale. Ecco spiegato il perché dell’aumento salariali da parte dei docenti che oggi guadagnano stipendi tra i 3500 ed i 6mila pesos. Per la cronaca, un caffè al bar costa oggi a Buenos Aires intorno ai 20 pesos per cui, tradotto in “caffè”, l’attuale docente argentino guadagna al mese tra i 175 ed i 300 espressi.
3- Il mezzo crack di fine gennaio
“Come vedo l’Argentina? Sta andando di nuovo in default”. Questo mi aveva detto al telefono lo scorso 23 gennaio un grosso trader di Wall Street contattato per avere lumi sul futuro del paese del tango. Default, ovvero lo spettro di un nuovo fallimento, come nel “Natale di sangue” del 2001 quando, durante la rivolta popolare avvenuta dopo il blocco dei conti correnti bancari, morirono 39 persone. Al momento della telefonata il cambio del peso aveva raggiunto quota 8,40, dopo un’apertura a 7,15 – una svalutazione record in poche ore. In quel preciso istante a molti sembrava che l'Argentina stesse di nuovo crollando, anche perché solo un mese e mezzo prima uno sciopero delle polizie locali aveva dato il là ad una rivolta senza precedenti, con oltre mille supermercati saccheggiati. Bilancio degli scontri: 18 morti.
Nei giorni immediatamente successivi a quel “giovedì nero” – così è stato ribattezzato lo scorso 23 gennaio – tutti i media scrivevano, chi più chi meno, che la sorte dell’Argentina era segnata. Dopo la svalutazione choc il problema su cui molti si soffermavano erano le riserve in dollari della Banca Centrale, già scese del 30% solo nel 2013 e che stavano precipitando al ritmo di 100 milioni di dollari al giorno.
Includendo i debiti dell’Argentina con il Club di Parigi (almeno 5 miliardi di dollari più gli interessi), quelli con gli holdouts (le obbligazioni argentine ripudiate da Buenos Aires, delle quali i possessori chiedono il rimborso), su cui si dovrebbe esprimere la giustizia statunitense nei prossimi mesi (1,3 miliardi di dollari), dei 28 miliardi di dollari della riserve della Banca centrale di riserve ne restano ben pochi.
4- L’uomo che per ora ha messo in carreggiata il paese
Un ruolo decisivo lo ha avuto la Banca centrale nella persona del suo presidente Juan Carlos Fábrega che ha preso delle misure molto oculate e soprattutto ortodosse, riuscendo a contenere l’emorragia di dollari e a preservare le riserve. Come? Innanzitutto ha alzato del 15% i tassi d’interesse, poi è riuscito a togliere dalla circolazione 45 miliardi di pesos da fine gennaio ad oggi, infine ha alzato dal 20% al 50% le riserve in dollari che le banche private dovranno per legge da aprile garantire alla Banca centrale.
Certo il prezzo pagato è stato un aumento del costo del credito al consumo ed alla produzione, ed è perciò calata la richiesta di prestiti dei beni con un’alta componente di parti importate – soprattutto automobili ed elettrodomestici –, ma l’emergenza finanziaria di fine gennaio si è placata e con lui lo spettro del default anche se adesso spetta al governo combattere in modo serio la crisi – una cosa per niente scontata.
Non a caso negli ultimi giorni la tensione tra Fábrega ed il ministro dell’Economia Kicilloff è salita alle stelle, con il primo ad avvertire il secondo che tutti gli sforzi ortodossi della Banca Centrale saranno vanificati se non si chiudono fronti aperti come quello del club di Parigi, se non si reinserisce il paese nel mondo del credito internazionale e se non si fanno politiche fiscali serie per ridurre l’emissione monetaria.
5- Paralleli fra la crisi di oggi e quelle di ieri
Per descrivere quanto accaduto in Argentina a inizio 2014 in molti hanno fatto riferimento al default del 2001. Un errore, perché l’attuale crisi è stata (ed è ancora) di tutt’altro genere. Piuttosto, se si vuole fare un parallelismo col passato, seppur in tono minore, dobbiamo risalire al 4 giugno del 1975, quando l’allora ministro dell’Economia argentino Celestino Rodrigo annunciò una svalutazione del 150% del peso rispetto al dollaro, controbilanciato da un aumento del 80% degli stipendi dei lavoratori. Il risultato finale fu un’inflazione che a fine 1975 sforò il 200%.
Oggi senza una seria politica economica da parte dell’esecutivo guidato dalla Kirchner il rischio di una spirale svalutazione-inflazione, seppur di entità minore rispetto a quella del 1975 rimane. Molto dipenderà dal governo e dalle “paritarie”.
6- Previsioni incerte
E, a testimonianza dell’incertezza del futuro argentino basti vedere come hanno reagito questa settimana Moody’s e Bank of America (BoA). La prima ha abbassato ulteriormente il rating di Buenos Aires da B3 a Caa1, livello pre-default, con l’outlook che da stabile è stato cambiato in “negativo”. BoA ha invece fatto un “upgrade” del debito di Buenos Aires, consigliando un “buy”, ovvero “acquistare”. In realtà nessuno sa come finirà l’ennesima crisi argentina ma, se vogliamo sintetizzare, diciamo che Moody’s non crede che Kicilloff seguirà i consigli di Fábrega, Bank of America sì.
7- Una digressione
Com’è possibile che l’Argentina, che negli anni Quaranta era la quarta economia mondiale per Prodotto interno lordo, un paese così ricco che nell’immediato dopo guerra il paese fu soprannominato il “granaio del mondo”, da decenni sia costantemente in crisi? Prima con Juan Domingo Perón, cacciato nel 1955, poi, nel 1976, arriva una dittatura feroce che “genera” trenta mila desaparesidos. Poi l'iperinflazione del 1989 ed il default di inizio 2002.
Oggi è in crisi il modello di Cristina Kirchner, in perenne polemica con l’Occidente con il fine di distogliere l’attenzione dagli enormi problemi economici interni, nascosti sino a un mese fa anche da statistiche addomesticate come quelle sulla classe media, sulla povertà e sull’inflazione. Dalle frizioni con la Spagna per la nazionalizzazione del gigante petrolifero Repsol-Ypf, a quelle “sempreverdi” con la Gran Bretagna per le isole Falkland-Malvinas, Buenos Aires ha aperto negli ultimi tre anni almeno una decina di casus belli in giro per il mondo. A fine 2012 l'Unione Europea aveva denunciato davanti al WTO l’Argentina per i dazi protezionistici all’import e, per la prima volta, la Kirchner è riuscita ad entrare in conflitto persino con un paese africano, il Ghana, colpevole di avere messo sotto sequestro per alcuni giorni una sua nave militare. L’incertezza giuridica sta facendo fuggire gli investitori, compresi quelli argentini che guardano con sempre maggior interesse al vicino Brasile, mentre l’impossibilità di ricorrere ai finanziamenti esteri per le questioni ancora aperte di debiti insoluti con il Club di Parigi e gli holdsout - la giustizia Usa dovrebbe risolvere il caso quest’anno - continua ad essere una spada di Damocle sul futuro sviluppo di Buenos Aires. L’impossibilità di finanziare i bilanci delle provincie e di soddisfare le richieste sindacali sta frantumando l’appoggio alla Kirchner il cui mandato scadrà nel 2015.
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