Se per Argentina e Venezuela il 2014 è cominciato nel peggiore dei modi mentre per il Brasile sarà ancora un anno interlocutorio con una crescita stimata dal FMI di appena l’1,8% - superiore in Sudamerica solo a quelle di Buenos Aires (+0,5%) e Caracas (-0,5%), ma distante anni luce dalla media del 4,9% dei cosiddetti “emergenti” - ciò non significa che la regione del Cono Sur abbia perso il suo appeal per gli investitori, né che tutti i paesi della regione debbano essere considerati allo stesso modo.

Il Cile, ad esempio, continua a rimanere la nazione latinoamericana meglio valutata dalle agenzie di rating seguito dal Perù, forse il paese con più prospettive, e dove prevale la fiducia sia tra produttori che consumatori, Panama dovrebbe superare quest’anno il 7% nella crescita del PIL, e la Bolivia confermare il record del 6,5% del 2013 grazie al boom nelle esportazioni di gas naturale e soia. L’Ecuador è stato promosso da Fitch da “B-“ a “B” mentre il Paraguay ha avuto la crescita più vigorosa lo scorso anno con un eccezionale +13% dovuto anche alla sua riammissione nel Mercosur, il Mercato comune sudamericano, ma quest’anno continuerà ad andare bene (+4%).

Colombia: le premesse

In questa analisi Lettera Economica si occupa però del paese forse più interessante in America latina per fare oggi investimenti, ovvero la Colombia, che spesso viene trascurata dai media e la cui fama, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, è ancora associata al narcotraffico trascurando dati oggettivi (fonte: ONU, Unodc) come il fatto che, ad esempio, da tempo Brasilia ha superato Bogotá nell’export mondiale di cocaina mentre la leadership nella produzione di polvere bianca è detenuta – anche qui ormai da anni – dal Perù. Oppure che il tasso di omicidi nella regione della capitale colombiana, pari a 16,5 ogni 100mila abitanti nel 2013, seppur altissimo se comparato con l’Italia dove siamo sotto l’1, è crollato rispetto al 1990 ed è circa la metà rispetto ai 28,9 morti ammazzati nello stato di Rio de Janeiro o un quarto rispetto ai 54 assassinati di Caracas (sempre ogni 100mila abitanti, 2013). 

Il boom economico

Cominciamo col ricordare che nel 2000 il PIL della Colombia era di 90 miliardi di dollari mentre oggi sfiora i 400 miliardi di dollari, una crescita nominale in dollari del 450% circa in 14 anni. Lo scorso 11 aprile è stato pubblicato dal Dane, l’Istat colombiano, il dato ufficiale della crescita del PIL del paese nel 2013, pari ad un +4,3% scontato dall’inflazione, per altro la più bassa in Sudamerica (+1,94% nel 2013). Un buon risultato che però non sorprende, perché negli ultimi 10 anni la Colombia è cresciuta mediamente del 4% reale l’anno. Un incremento costante e reso ancora più significativo da un fattore che ha pesato negativamente, come sottolineava sul finire del 2013 il ministro dell’Economia colombiano Mauricio Cárdenas, definendolo “la madre di tutti i problemi”, ovvero la rivalutazione della moneta locale, il peso, nei confronti del dollaro Usa.

Il peso forte

Se, infatti, nel 2003 ci volevano quasi 3.100 pesos per acquistare un dollaro, appena 5 anni dopo, nel 2008, ne bastavano 1650, quasi la metà. Un rafforzamento della valuta locale rispetto a quella dominante nella regione, ovvero il dollaro – dominante a tal punto che nel confinante Ecuador l’economia è dollarizzata dal 2000 – e che almeno sino allo scorso anno ha avuto un impatto significativo sulla bilancia commerciale colombiana. Un trend che si è però invertito a inizio 2014, con un gennaio in cui il peso, per la gioia del ministro Cárdenas, ha perso il 4,3% in pochi giorni, raggiungendo addirittura quota 2065 lo scorso 20 febbraio, il livello più basso nei confronti del dollaro Usa degli ultimi 4 anni.

La Colombia come “tigre asiatica”?

Il problema del rafforzamento del peso per l’export comunque rimane ma, intelligentemente, è stato sfruttato da chi ha governato il paese negli ultimi 10 anni come un’occasione per rinvigorire l’economia colombiana su altri due fronti. In primis gli investimenti - macchinari, know-how e tecnologia importata grazie al peso forte - cresciuti in pochi anni da una percentuale inferiore al 20% rispetto al PIL a quasi il 30% di oggi. Se pensiamo che tra i principali problemi del Brasile contemporaneo c’è che gli investimenti rispetto al Pil non riescono a schiodare da oltre un decennio dal 18-19% e che, invece, in Colombia nello stesso periodo hanno raggiunto i livelli che consentirono alle cosiddette “tigri asiatiche” di crescere ad un tasso medio del 5% annuale per quasi 20 anni, ben capiamo perché sia giustificato l’ottimismo sul futuro dell’economia di Bogotá. Secondo fattore direttamente correlato alla crescita degli investimenti è la crescita della produttività che, grazie ad un apparato industriale rinnovato, ha superato quella di molti altri “competitor” regionali e se, ad esempio, si analizzano i dati del settore del caffè, uno dei principali con quelli minerario e petrolifero, dove la produttività è cresciuta del 27% solo nel 2013.

L'apertura al mondo

Altro fattore che ha consentito alla Colombia di ovviare al problema del “cambio forte” non è stato tanto spingere il mercato interno, come invece hanno scelto di fare altri paesi della regione per contenere l’importazione di beni e servizi tramite dazi, tariffe e leggi protezioniste. I colombiani sono 47 milioni, tutto sommato pochi rispetto ai 200 milioni di brasiliani o ai 118 milioni di messicani e, dunque, puntare solo su politiche fiscali e creditizie espansive mixate al protezionismo non avrebbe avuto molto senso. Bogotá ha invece scelto la via opposta, ovvero siglare accordi di libero scambio con oltre 50 nazioni negli ultimi 10 anni, inserendosi così appieno nel mondo e, soprattutto, guadagnando l’accesso ad oltre 1,5 miliardi di consumatori, statunitensi ed europei compresi.

L’Alleanza del Pacifico

Ma la Colombia è anche il paese fondatore dell’Alleanza del Pacifico (AdP) con Cile, Perù e Messico, ovvero le economie più orientate al commercio e al libero mercato della regione. I risultati raggiunti in meno di due anni da questo patto - che rappresenta il 39% del PIL latinoamericano, concentra il 41% del commercio con il resto del mondo e quasi la metà dei 144 miliardi di dollari in investimenti esteri diretti affluiti nel 2012 tra Patagonia e Rio Bravo - sono davvero sorprendenti: dal 10 febbraio di quest’anno il 92% dei prodotti (non solo beni ma anche servizi, investimenti ed acquisti pubblici) sono infatti tax-free per le importazioni/esportazioni tra questi 4 paesi e l’obiettivo è estendere a breve questa percentuale al 100%.

Pur non avendo una struttura complessa trattandosi “solo” di un patto, l’Alleanza del Pacifico ha portato a casa in due anni più di quanto non abbiano fatto tutte le altre organizzazioni regionali. Oltre all’abbattimento delle tariffe commerciali è infatti stato eliminato l’obbligo di visti di lavoro. Inoltre in Africa, Asia e nel Caucaso sono state create missioni commerciali ed ambasciate congiunte, si sono uniformati i diplomi universitari ed è stato incentivato il movimento non solo della produzione ma anche delle persone.

Impietoso il confronto col Mercosur, dove di accordi di libero scambio con l’Europa non c’è traccia al di là delle tante parole spese dal 1994 ad oggi, con gli Usa men che meno, mentre all’interno del blocco sono continue le tensioni economiche, soprattutto per l’incapacità di Buenos Aires di rispettare le tariffe commerciali accordate con Brasilia e per il contrasto tra i “grandi” (Brasile e Argentina) ed i “piccoli” (Uruguay e Paraguay), le cui esigenze, al di là delle dichiarazioni d’intenti, differiscono molto. L’entrata del Venezuela, con tutti i suoi problemi economici, non ha poi aiutato a rendere più efficiente il Mercosur come dimostra l’ennesima proposta di accordo con l’Europa che sarà fatta dal blocco nelle prossime settimane e che esclude espressamente Caracas.

Non a caso il nuovo blocco di cui la Colombia fa parte si è attirata l’opposizione di parecchi paesi latinoamericani che reputano l’AdP anche un patto politico nato per fare concorrenza, in ottica “neoliberale”, ad altre associazioni più protezioniste come il già citato Mercosur e l’Alba, l’Alleanza bolivariana delle Americhe. La risposta standard dei membri dell’Alleanza del Pacifico è “non siamo contro nessuno” mentre il presidente colombiano Juan Manuel Santos ripete da tempo questa frase come un mantra: “siamo un’iniziativa economica e non politica”.

Il nuovo blocco latino americano

Al di là dei busillis politico-ideologici che qui interessano poco o nulla, a detta degli analisti indipendenti nel 2024 l’Alleanza del Pacifico sarà la quarta economia che più contribuirà alla crescita planetaria, dopo Cina, India e Stati Uniti e già oggi è integrata con le quattro principali aree economiche mondiali, ovvero Ue, Usa, Cina e Giappone grazie ai trattati di libero scambio che Cile e Perù hanno siglato praticamente con tutti i paesi rilevanti del globo terracqueo. E dato che, a meno di sconquassi, il mondo sembra andare verso un’economia composta da super blocchi, l’Alleanza del Pacifico sta facendo i passi giusti come dimostrano anche le statistiche secondo le quali nel 2012 (Fonte Onu, Cepal), anno della sua fondazione, gli scambi tra i paesi dell’AdP sono cresciuti dell’1,3% mentre quelli intra-Mercosur sono scesi del 9,4%. L’apertura dell’economia ha reso possibile l’incremento vertiginoso del commercio estero di Bogotá, passato dai 30 miliardi di dollari del 2000 ai 120 miliardi di dollari attuali.

Altro tentativo regionale interessante che coinvolge la Colombia, anche se è ancora un work-in-progress, è il Mila, acronimo che sta per Mercato Integrato Latinoamericano. Creato nel 2010, si propone di integrare le borse di Bogotá, Santiago del Cile e Lima, tre mercati al momento settoriali - quello colombiano concentrato su energia e strumenti finanziari, il peruviano sulle risorse minerarie e quello cileno sui servizi ed il retail. Resta da vedere se il tentativo riuscirà in futuro a proporsi come un’alternativa appetibile rispetto a quelle che sinora rimangono le uniche due piazze finanziarie globali dell’America latina, ovvero il Messico e il Brasile. Certo è che se la borsa messicana dovesse entrare nel Mila, ripercorrendo quanto fatto a livello commerciale con l’AdP, allora la Bovespa di San Paolo potrebbe avere nella regione una concorrenza oggi sconosciuta.

Gli investimenti in infrastrutture

Sul fronte interno, alla crescita del PIL stimata per quest’anno intorno al 5% bisogna aggiungere gli appalti aperti alla partnership pubblico-privata per 26 miliardi di dollari per costruire nuove infrastrutture. Tra queste, le nuove autostrade che collegheranno la “cintura del caffè” nel sud del paese con la costa caraibica e l’est del paese all’Oceano Pacifico con il porto di Buenaventura, oltre a tunnel e viadotti che faciliteranno la comunicazione tra Bogotá e Cali. Tutti investimenti resi possibili dalle nuove scoperte di petrolio (qualche settimana fa è stato superato il milione di barili estratti al giorno) e di minerali che hanno rafforzato il bilancio statale, consentendo per la prima volta anche una copertura sanitaria pubblica universale di base.

Altra ragione del successo economico colombiano si deve alla riforma del lavoro del 2012 che ha ridotto i costi di assunzione per le imprese, facendo scendere al 10% la disoccupazione. La legge ha fatto emergere molto “nero”, un altro problema storico della Colombia, e oggi per la prima volta i lavoratori formali con regolare contratto hanno superato gli occupati “informali”.

La prova del magic moment colombiano è dimostrata anche dai flussi migratori. Per la prima volta in 50 anni i colombiani stanno infatti ritornando nel loro paese, trasformatosi così da esportatore ad importatore netto di popolazione. Per 25 anni la diaspora dei colombiani a causa della crisi economica e della violenza portò alla fuoriuscita di almeno 4 milioni di cittadini, pari al 10% della popolazione totale. Oggi le seconde generazioni stanno rientrando attratti dal boom che consente loro di aprire piccole attività e di far studiare i loro figli in università di buon livello.

La diseguaglianza sociale e i negoziati con le Farc

Storicamente la disuguaglianza sociale è il principale problema colombiano, ad oggi risolto solo in parte. Tra 2000 e 2013 i poveri sono infatti passati dal 60% della popolazione totale al 30% ma molto resta da fare come testimonia l’indice di Gini a 0,548, ancora tra i più alti dell’America latina. Senza dubbio aver ridotto chi vive in povertà dai 24 milioni d’inizio millennio ai 14 milioni di oggi rappresenta un buon risultato delle politiche sociali poste in essere dai governi che si sono succeduti negli ultimi 14 anni.

Sul fronte della disuguaglianza il problema rimane soprattutto nelle aree rurali, dove vivono oltre 7 milioni dei poveri colombiani e, non a caso, questo è uno dei principali obiettivi dell’attuale governo che da fine 2012 sta negoziando a Cuba un accordo di pace con le Farc. In agenda, oltre al disarmo e all’abbandono del narcotraffico per autofinanziarsi da parte della guerriglia, anche la riforma agraria e la redistribuzione delle terre ai contadini. Il prossimo 25 maggio l’attuale presidente Manuel Santos, che su quest’accordo per mettere la parola fine su una guerra interna che dura da 60 anni punta molto, tenterà la rielezione da favorito della vigilia. La possibile pace con le Farc, al pari del fallimento negoziale, a detta degli analisti indipendenti non inciderà comunque più di tanto sull’economia e, in caso di accordo, l’implementazione della riforma agraria con gli annessi programmi sociali peserà sulle casse dello stato non più dell’1,5% del PIL.

Ma perché Santos ha deciso di negoziare con la guerriglia? Essenzialmente per un motivo. Oggi la Colombia ha un budget ben maggiore rispetto al passato per affrontare i temi dell’agenda negoziale, ovvero la restituzione, distribuzione e certificati di proprietà delle terre, il problema degli sfollati, la riforma della giustizia e l’abbandono del narcotraffico da parte delle Farc. Lo stato colombiano targato 2014 è differente agli occhi della guerriglia, perché economicamente è molto più florido rispetto al passato e se “a budget” per la “pacificazione” a Caguán nel 2000 aveva messo sul tavolo 25 miliardi di dollari, oggi ne ha piazzati ben 115 miliardi di dollari. Potrebbero fare la differenza con le Farc.