Mondiali di calcio ed elezioni presidenziali. Il 2014 si annuncia un anno decisivo per il futuro del Brasile e non solo perché, dopo 64 anni, il paese del samba torna ad ospitare la Coppa (dal 12 giugno al 13 luglio). Quest’anno (il 5 ottobre il primo turno delle presidenziali) si decide anche se Dilma Rousseff continuerà a governare ma, soprattutto, si capirà meglio se il boom brasiliano che aveva raggiunto il suo apice nel 2010 con una crescita del PIL del 7,9% è stato solo una parentesi o è destinato a proseguire.
Di certo c’è che l’economia verde-oro, nonostante gli stimoli al consumo e l’ampliamento del credito, da tre anni non “tira” più come dovrebbe. La crescita negli ultimi 36 mesi è stata appena del 6%, meno del 2% annuo, e per quest’anno le previsioni del Fondo Monetario Internazionale immaginano uno “stitico” +1,8%. Su 21 paesi dell’America latina scrutinati dal FMI peggio del Brasile dovrebbero fare solo El Salvador (+1,6%), Argentina (+0,5%) e Venezuela (-0,5%), davvero troppo poco per un paese Bric o emergente che dir si voglia, visto che la crescita di questi ultimi quest’anno è prevista sfiorare il +5%. Quali i motivi di questa crescita fiacca per un paese che ha tutto per essere il traino economico del Sudamerica?
Le cose fatte bene
Lettera Economica aveva già scritto nel 2011 di Brasile, sottolineando le virtù verde-oro nell’affrontare la crisi del subprime del 2008 da cui il paese, raro caso al mondo, ne uscì rafforzato grazie all’uso delle riserve delle banche di credito ordinario presso la Banca Centrale (BC) per implementare tradizionali politiche anti cicliche. Se, infatti, all’epoca negli USA il rapporto riserve-depositi bancari oscillava fra 3 e 10% e in Cina era del 15%, in Brasile si attestava al 45% e all’allora presidente della BC Henrique Meirelles bastò abbassare questa percentuale a 42 perché si liberassero 69 miliardi di dollari di crediti da usare in funzione anticiclica. La disoccupazione scese ai minimi storici, il consumo e dunque la domanda interna di 200 milioni di brasiliani - 40 milioni dei quali uscivano dalla povertà accedendo per la prima volta al credito - controbilanciò assieme alla “fame di commodities” cinese il calo della domanda esterna di Usa e Ue in crisi, il costo della manodopera continuava ad essere inferiore a quello statunitense ed europeo, la meta inflazionaria del BC era centrata costantemente mentre tutti sembravano volere investire in Brasile.
Le criticità da affrontare
In quell’occasione Lettera Economica aveva però anche allertato sulle criticità da eliminare affinché il boom del 2010 potesse continuare ed essere sostenibile nel lungo termine: la mancanza di manodopera qualificata, l’istruzione disastrosa, il protezionismo eccessivo, l’incertezza giuridica in materia economica, l’inflazione, Mondiali ed Olimpiadi come occasione da non perdere per costruire infrastrutture degne di questo nome, la corruzione.
Purtroppo da allora quasi nessuno di questi problemi è stato affrontato come si doveva e, dunque risolto e ciò spiega perché oggi il Brasile non voli come dovrebbe o, almeno, non cresca di almeno il triplo di quanto non faccia.
Produttività ed istruzione
La produttività pro capite dei lavoratori, ad esempio, non aumenta significativamente da quasi mezzo secolo, a differenza, ad esempio di Cile, Messico, Colombia. E questo anche perché, nonostante lo stesso ministro attuale del Lavoro brasiliano lo richieda da tempo, nessuna riforma del settore è stata fatta a differenza, ad esempio, di quanto accaduto in Colombia nel 2012. Nonostante la spesa per l’istruzione in percentuale rispetto al PIL negli ultimi 10 anni sia stata alzata ai livelli dei paesi occidentali, la qualità della scuola pubblica - dall’asilo alla fine delle superiori - continua ad essere carente come dimostrano i test Ocse-PISA, i salari degli insegnanti, tra i più bassi dell’America latina ed il semplice fatto che, ad esempio, il 30% delle strutture scolastiche brasiliane non hanno l’acqua potabile. Solo l’Università pubblica è buona ma per entrarci bisogna fare un test d’ammissione e senza una miglioria alla base - ovvero nelle elementari, medie e superiori - solo chi ha i soldi per mandare i figli alle private può sperare di superarlo (l’introduzione delle quote per studenti universitari di colore non risolve il problema dell’istruzione pubblica di base disastrosa).
Spesa pubblica, infrastrutture, investimenti
Mondiali di Calcio ed Olimpiadi sono stati sinora un’occasione persa visti i ritardi e le opere promesse e in gran parte dei casi neanche iniziate. Nel 2013 il Brasile ha investito appena il 2,2% del suo PIL in infrastrutture, meno della metà della media dei cosiddetti paesi in via di sviluppo (che sono al 5,1%) mentre la percentuale degli investimenti verde-oro sono fermi da anni al 18% rispetto al prodotto interno lordo. L’ideale per garantire una crescita sostenibile e sostenuta è invece del 30%, come insegna il “case study” colombiano (cfr articolo su Lettera Economica) e delle cosiddette “tigri asiatiche”. Se a ciò si aggiunge che la spesa pubblica - che a Brasilia a differenza ad esempio di Bogotá non ha leggi per essere contenuta - lo scorso anno è cresciuta del 7,2%, quasi 4 volte più del PIL e che per la prima volta ha raggiunto quota 40% nella composizione della produzione interna lorda, ben si capisce perché più di un’analista sia preoccupato per la crescita futura del gigante sudamericano. Anche perché, secondo gli ultimi dati statistici, oltre il 62% delle famiglie brasiliane non solo non riesce a risparmiare ma si dice indebitata, mentre il credito con cui si è stimolato il consumo negli anni scorsi è stato concesso, nel 60% dei casi, dallo stesso governo, compreso quello al BNDES, la Banca statale per lo sviluppo economico che a sua volta finanzia molte grandi aziende verde-oro con modalità assolutamente discrezionali e, dunque, assai poco trasparenti (basti pensare ai finanziamenti concessi all’ex uomo più ricco del Brasile, Eike Batista, oggi indagato per insider trading ed il cui impero “X” si è sciolto come neve al sole nel giro di un anno).
Il costo del lavoro
Ma la scarsa crescita brasiliana è da ricollegarsi anche al boom nei costi di produzione industriale. Se infatti nel 2004, nonostante i bottle necks infrastrutturali, fabbricare manufatti in Brasile costava il 3% in meno che negli USA (Fonte: BCG, Boston Consulting Group), oggi è di quasi un quarto più caro (+23%). A detta del BCG che studia i 25 paesi che esportano di più e che contribuiscono alla vendita del 90% dei manufatti mondiali, oggi il costo di produzione verde-oro è uguale a quello italiano e belga ed è appena di poco inferiore a quello francese e svizzero. A contribuire all’aumento nel decennio i salari più che raddoppiati, il rafforzamento del real, la valuta brasiliana, nei confronti di dollaro ed euro, una produttività ristagnante ed una crescita del 90% del prezzo dell’energia elettrica e del 60% di quello del gas naturale. Il campanello d’allarme più forte di questo trend che ha raffreddato gli entusiasmi sul Brasile è arrivato nel terzo trimestre 2013, con un calo del PIL pari allo 0,5%. Poco dopo la Banca Centrale verde-oro comunicava un’uscita dal paese di quasi 8 miliardi di dollari nei soli primi 20 giorni di dicembre. Un record negativo che non si vedeva dal 1999, quando fu introdotto il sistema dei cambi flessibili e questo nonostante il tasso d’interesse ufficiale Selic continui ad essere tra i più alti al mondo.
Il voltafaccia del The Economist
Altro problema è rappresentato dall’inflazione che, su 39 mesi di presidenza Dilma Rousseff, ha superato per 10 volte il tetto massimo del 6,5% che si era posto il governo. Nel 2013 in Brasile l’aumento dei prezzi al consumo è stato pari al 5,91%, contro una media mondiale del 3,3% ed è probabile che nei prossimi mesi sfondi di nuovo il tetto del 6,5%. E questo nonostante oggi il tasso d’interesse Selic all’11% sia il più alto da quando la Rousseff si è insediata il 1 gennaio 2011. Impietosa l’analisi fatta da The Economist che, pure, nel 2009 aveva celebrato il boom economico verde-oro. Sul finire del 2013, la rivista britannica ha elencato tutti i motivi della perdita d’appeal verde-oro: da una manodopera impreparata ad una produttività ristagnante, da una spesa pubblica crescente ad investimenti insufficienti, da un “costo Paese” troppo elevato ad una corruzione politica che non accenna a diminuire. Quanto speso dal governo per costruire gli stadi del Mondiale 2014 supera già ampiamente gli esborsi totali di Sudafrica 2010 e Germania 2006 e con sanità, trasporti e scuole pubbliche non all’altezza di un paese che ha tutto per essere gli Stati Uniti del Sudamerica, è probabile che col Mondiale tornino anche le proteste di piazza, anche se di minore entità rispetto a quelle dello scorso giugno.
Un potenziale legato alle riforme
Tutto da buttare dunque? Niente affatto. La costruzione di milioni di case popolari da parte del governo con il mega-progetto “Mia Casa, Mia Vita” sta facendo crescere tutto l’indotto dell’edilizia, il consumo nonostante l’indebitamento delle famiglie continua forte mentre le riserve petrolifere scoperte negli ultimi anni faranno raddoppiare la produzione di Oro nero brasiliano entro il 2020. Certo, la statale Petrobras sta vivendo un periodo difficile a causa di una serie di scandali ed ha visto ridurre di circa un terzo il valore del suo capitale quotato in borsa negli ultimi anni, ma questa è un’altra storia i cui risvolti non sono ancora chiari per poterne scrivere senza il rischio di incorrere in errori. Ma forse la dimostrazione che nel gigante sudamericano conviene esserci comunque arriva dai cinesi, la cui presenza continua a crescere a San Paolo, Rio e dintorni. Il ragionamento di Pechino? Meglio entrare in un paese dalle potenzialità enormi come il Brasile in un momento di “stallo” dell’economia che in uno di “boom” perché, ça va sans dire, si spende di meno. Le potenzialità del Brasile sono enormi ma sembra oramai urgente la necessità di fare le riforme di cui si parla da anni, da quella politica alla fiscale (con una legge che contenga almeno in linea con la crescita del PIL la spesa pubblica), da quella che snellisce la burocrazia a infrastrutture che vadano al di là degli stadi di calcio, da quella scolastica a quella delle carceri, in condizioni pietose in alcune regioni come ad esempio il Maranhao, dove le morti dei detenuti avvengono nell’indifferenza generale in media ogni 4 giorni (dati 2013). Sarebbe inoltre auspicabile una maggiore trasparenza nelle regole degli appalti pubblici per evitare che, come accadde lo scorso anno nell’asta per sfruttare il petrolio del “pre-sal” (il cosiddetto “leilao de Libra”) ci sia un solo consorzio concorrente o come in altri l’asta vada addirittura deserta. Incredibile, ad esempio, che nel paese che ha più risorse idriche al mondo, si rischi la razionalizzazione dell’acqua – è il caso di San Paolo – solo perché non si è pianificato un sistema migliore di quello della riserva di Cantareira che, sin dagli anni Settanta quando nacque, da problemi e si sa non essere all’altezza.
Le elezioni di ottobre
In questo contesto economico dove le ombre sembrerebbero prevalere sulle luci s’inserisce la lotta politica in vista del voto del prossimo 5 ottobre che sceglierà il successore alla presidenza brasiliana. Tutti danno vincente al primo turno Dilma Rousseff, l’attuale presidente che si ricandida, seppur in calo nelle ultime settimane. Se i tanti sondaggisti verde-oro che riempiono le pagine della politica made in Brazil non hanno clamorosamente sbagliato tutte le previsioni, fino alla fine del 2018 il Gigante del Sudamerica continuerà ad essere governato dalla delfina di Lula, da lui scelta a sorpresa non essendo la Rousseff cresciuta politicamente nel Pt, il Partito dei Lavoratori fondato nel 1980.
Dicono che Dilma, laureata in Economia, abbia un carattere di ferro e che sia un’amministratrice inflessibile. Di sicuro non ha la lacrima facile, l’appeal, né le doti conciliatorie di Lula e, sostengono alcuni, se dopo il Mondiale per i sondaggi davvero fosse “a rischio” la vittoria della candidata del Pt, l’ex sindacalista potrebbe anche candidarsi. Per questo “scambio” c’è tempo sino al prossimo 15 settembre dato che per la legge brasiliana i candidati all’interno di uno stesso partito possono essere sostituiti sino a 20 giorni prima del voto. Di certo, all’interno del Pt c’è chi spinge la campagna “volta Lula”, in italiano “ritorna Lula” anche se l’ex sindacalista ha già detto non è sua intenzione candidarsi alla presidenza prima delle elezioni del 2018.
Staremo a vedere che succede. Nell’ultimo sondaggio pubblicato a fine aprile Dilma è sempre in testa, anche se in calo del 6,7% rispetto a fine febbraio, con il 37% delle intenzioni di voto. Secondo è Aecio Neves, in crescita del 4,6% rispetto a due mesi fa e candidato del Psdb, il Partito socialdemocratico brasiliano, con il 21,6% di voti. Terzo, ma anche lui in crescita netta, Eduardo Campos, con l’11,8% del gradimento ed in lizza per il Psb, il Partito socialista verde-oro.
Per il complicato sistema elettorale brasiliano vince al primo turno chi ottiene più voti di quelli di tutti gli altri candidati messi assieme. E, dunque, Dilma vincerebbe al primo turno anche se, calcolando il trend calante della sua candidatura ed i margini di errore dei sondaggi, pensare oggi ad un ballottaggio non sembra più una follia come qualche settimana fa.
Non appena resi noti questi ultimi dati sfavorevoli ed approfittando della vigilia del 1 maggio, Dilma ha fatto un apparizione in televisione a reti unificate il 30 aprile, annunciando l’aumento del 10% del Bolsa Famiglia, il principale programma socio-assistenziale che aiuta circa 36 milioni di persone (e di elettori). Poi ha promesso che il salario minimo quest’anno crescerà più dell’inflazione e ha detto di avere “corretto” la tabella dell’Imposto de Renda, la dichiarazione dei redditi la cui scadenza, in Brasile, cadeva proprio ieri. Basterà il discorso elettorale alla nazione di Dilma – definito “populista” dal Financial Times.- per allontanare lo spettro del secondo turno o sarà necessario “far scomodare” Lula? Molto dipenderà da come andrà l’economia nei prossimi mesi e dal Mondiale che sta per iniziare.
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