Tra i tutti i memoir degli ex leader politici, “Stress test” di Tim Geithner (1) ha il merito di non essere né noioso né del tutto prevedibile, soprattutto quando dice di sé di essere sempre stato uno che ama stare dietro le quinte, pochi discorsi pubblici, poca apparenza, con una famiglia sempre in giro che lo ha fatto sempre sentire come un soldato che torna da una missione – questa timidezza spiega perché il libro sia così ben scritto e le performance pubbliche dell’ex segretario al Tesoro americano siano sempre state disastrose.

In Italia ha fatto molto discutere la parte del libro in cui Geithner dice di avere avuto pressioni da parte dei leader europei per far sì che il Fondo monetario congelasse gli aiuti a Roma fino a quando l’ex premier Silvio Berlusconi non si fosse dimesso. Il clima permanente da complotto è riemerso più potente che mai, e così è tornato in mente che anche l’ex premier spagnolo Zapatero aveva detto cose simili per non parlare del libro di Alan Friedman. La verità non si potrà mai sapere, e a leggere il memoir di Geithner questo affaire antiberlusconiano scompare in mezzo a un racconto intrigante che pure lascia domande importanti ancora irrisolte.

L’ex ministro del Tesoro ripercorre quel che è accaduto all’America dal 2008 in poi, quando in realtà Geithner era ancora il capo della Fed di New York e dall’oggi al domani si è ritrovato a dover decidere se le banche a rischio crak dovessero essere lasciate andare in fallimento o essere salvate. Quel senso di responsabilità persino eccessivo – divino, si potrebbe dire – aleggia come un ospite sgradito su tutto il racconto. C’è anche un senso di inadeguatezza, quando dice di essere stato scelto quasi per caso, certo “una scelta poco ortodossa”, perché “non ero un banchiere, non ero un economista, non ero un politico, non ero nemmeno un democratico”, anche se i più arrabbiati di tutti, oggi, sono i repubblicani. Soprattutto Glenn Hubbard, consigliere economico del candidato presidente Mitt Romeny (battuto da Barack Obama nel 2012), cheviene citato nel libro mentre dice: “Be’ certo che dovremo alzare le tasse, solo non lo diciamo adesso”.

Hubbard ripete da giorni che è una menzogna, ma è la sua parola contro quella di Geithner (comunque a Hubbard è andata anche bene, perché a Dinesh D’Souza, maestro del complottismo conservatore, l’ex ministro del Tesoro si è avvicinato un giorno per dirgli: “Come ci si sente a essere degli s****** così?”). Emerge una grande complicità invece con Obama, che ha voluto tenerlo fino a che ha potuto, anche quando Geithner gli ha chiesto – e a leggere il libro pare sia accaduto molto spesso – di lasciarlo andare.

La domanda centrale è però un’altra, a parte la sorpresa di trovare unapersona dietro a quell’uomo distaccato: perché salvare le banche e non dare i soldi ai cittadini per pagari quei mutui che stavano facendo saltare le banche? Geithner difende la sua strategia, che poi fu quella di Hank Paulson, ministro del Tesoro bushiano nel 2008, e di Ben Bernanke, ex governatore della Federal Reserve: non si poteva fare altrimenti, se crollava il sistema finanziario, non avrebbe avuto senso dare soldi aicittadini, cioè non sarebbe servito a nulla. Geithner parla anche di aver discusso di nazionalizzare Citigroup, così come si è opposto alla cacciata di Ken Lewis da Bank America.

Iniettare poi stimoli all’economia è stato l’altro passo importante che ha portato Geithner dall’essere considerato un repubblicano moderato (suo padre ha votato Romney nel 2012, quando ilfiglio era ancora al Tesoro) a un democratico radicale. Anche su questo punto, Geithner non pensa di doversi scusare di nulla. Andrew Ross Sorkin, commentatore finanziario del New York Times, ha riportato in un lungo ritratto di Geithner (2) fatto per l’uscita del libro (anche se in realtà il libro non era necessario, Sorkin ha parlato direttamente con l’ex segretario tantissime volte) una frase che sintetizza l’approccio generale: “Mettere fine al ‘too-big-toofail’ sarebbe stato come Moby Dick per gli economisti e i regolatori. Non soltanto irrealistico, ma anche contro i nostri valori”. Ecco, il salvataggio del sistema finanziario non si poteva evitare, né si voleva.

Oggi Geithner lavora in un private-equity medio- piccolo, Warburg Pincus, ed è stato ben attento a non finire in qualche gruppo legato ai bailout o alle strategie del governo. Settore privato, niente fasti. Ha finalmente rinunciato al socialismo di cui l’hanno accusato tutti per concedersi al capitalismo? “No, non direi proprio”.

(1) http://www.amazon.com/Stress-Test-Reflections-Financial-Crises/dp/0804138591/ref=sr_1_1?s=books&ie=UTF8&qid=1400190816&sr=1-1&keywords=stress+test
(2) http://www.nytimes.com/2014/05/11/magazine/what-timothy-geithner-really-thinks.html?_r=0