Di seguito trovate tre note. Ogni nota parte da un fatto locale - da una notizia - per approdare all’ambito generale. Nella prima l’emissione di obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti della durata di cinquanta anni porta a ragionare della in-conoscibilità del futuro. Nella seconda si intravvedono dietro l’apertura tedesca per una riforma del sistema bancario europeo i maggiori costi per gli altri Paesi. Nella terza la decisione presa da Unicredit di vendere la partecipazione in Mediobanca consente di approdare alla parabola della finanza italiana.
1- dell’emissione di obbligazioni a cinquanta o più anni
Sembra che il Tesoro degli Stati Uniti voglia offrire delle obbligazioni della durata di cinquant’anni, con qualcuno che pensa di offrire, ma più in là, quelle di cento anni. Ossia, il Tesoro pensa di offrire delle obbligazioni che scadono e vengono rimborsate fra cinquant’anni. Intanto, nell’attesa della scadenza e per cinquanta anni, l’acquirente stacca le cedole. Le obbligazioni di cinquant’anni esistono già, così come esistono quelle centenarie, ma non sono state emesse dagli Stati Uniti.
Che il(i) Tesoro(i) voglia(no) offrire delle obbligazioni a lunghissimo termine e che lo voglia(no) fare proprio nel momento - in realtà ormai da anni - in cui i rendimenti (i.e. il costo del debito per l’emittente titoli) sono nulli o negativi è comprensibile. Il costo del debito pubblico resta, infatti, compresso per molto tempo se si emettono molti titoli a lungo termine quando si riesce a collocarli a dei rendimenti bassi o nulli. Il vantaggio è, infatti, duplice: il debito costa meno e si ha una minore pressione dei mercati. Se il debito scade molto lentamente - per esempio quello britannico scade in quindici anni, tre volte più lentamente di quello statunitense - non si ha la pressione continua delle aste laddove sono venduti e comprati sia titoli in scadenza sia le nuove emissioni. Alle aste i mercati giudicano ogni manovra finanziaria chiedendo dei rendimenti più - se aumenta il rischio - o meno - se diminuisce - elevati. In breve, i Tesori acquisiscono, emettendo dei titoli a lunghissimo termine, dei gradi libertà.
Già, ma i sottoscrittori che cosa guadagnano? Si parta dal detto “le previsioni sono impossibili specie quelle che riguardano il futuro”. Proponiamo questo esercizio immaginario. Nel 1910 vengono offerti da molti Paesi dei titoli con scadenza a cinquant’anni. Era dalla fine delle guerre napoleoniche che in Europa non si aveva una guerra maggiore, se escludiamo quelle volte alla costruzione del Secondo Reich, mentre le economie crescevano molto. Quella tedesca era più dinamica delle altre dell’Europa, perché aveva dalla sua una maggiore dimensione media d’impresa, una tecnologia sofisticata, e le scuole professionali migliori. Noi sappiamo che cosa sarebbe successo dopo, ma nel 1910 non avremmo potuto saperlo (l’esercizio proposto consiste in questo). L’obbligazione tedesca pareva senz’altro la migliore. Quest’obbligazione di cui saremmo diventati dei fieri proprietari sarebbe poi scaduta nel 1960. Ossia, dopo una Prima Guerra persa ma fino ad un certo punto, dopo una inflazione di cui si ha ancora memoria, dopo un caporale che diventa cancelliere, dopo una Seconda Guerra finita in modo catastrofico, dopo una divisione in due, e dopo un decennio di Wirtshaftwunder. Alla scadenza la nostra obbligazione quanto sarebbe valsa?
In conclusione, esiste un’asimmetria. I Tesori più emettono debito a lungo termine a rendimenti compressi più acquisiscono dei gradi di libertà. I sottoscrittori più acquistano debito a lungo termine a rendimenti compressi più riducono i propri gradi di libertà. Infatti, così facendo, vincolano le proprie fortune al futuro. Legandole al futuro, possono solo scommettere sulle “magnifiche sorti e progressive”.
2 - quale “pentimento” tedesco?
Sette anni fa fu concordato un controllo centralizzato delle banche europee volto a rafforzare la fiducia in un settore gravemente colpito dalla crisi. E così le grandi banche hanno avuto un regolamento, una supervisione centralizzata, e un regime comune per la liquidazione delle istituzioni fallite. Le piccole però non sono state regolamentate. Il settore bancario europeo resta perciò duale, perché da una parte ha le poche grandi banche, e dall’altro le piccole, che sono molte.
Negli ultimi giorni si è avuta una apertura negoziale da parte di Olaf Scholz, il ministro delle finanze di parte socialdemocratica. Un’apertura, se si va a guardare meglio, dentro i vincoli usuali della Germania.
Eccoli. A) le banche devono ridurre ulteriormente i loro crediti deteriorati prima che si possa parlare dell'assicurazione dei depositi. B) le banche non trattino più il debito sovrano come un investimento privo di rischio a fini regolamentari. C) non è fatta menzione di un’attività per sostituire in parte i debiti sovrani, come gli euro-bond. Allo stato l’Italia non soddisfa pienamente le prime due condizioni, e non può contare sulle obbligazioni emesse in solido. L’apertura verso un sistema comune di riassicurazione dei depositi - una volta che il vincoli A) e B) siano soddisfatti - è immaginato “a stadi”. Si parte con la protezione a livello nazionale per poi - ma solo in caso di insufficienza di quest’ultima - passare ad una "liquidità aggiuntiva (ovviamente) limitata" fornita in solido.
Dunque un’apertura “non troppo aperta”, per così dire.
Si sospetta che con questa apertura pur limitata i tedeschi inizino a mettere le mani avanti in caso di una crisi finanziaria. Ma l’apertura è molto limitata per gli altri, ma, a ben guardare - non molto per se stessi. In Germania si ha un sistema bancario maggiore - come nel caso di Deutsche Bank - che è fragile, e uno minore - quello delle banche locali - che è frammentato e poco redditizio. Con i vincoli esposti da Olaf Scholz le banche tedesche che non hanno troppi crediti deteriorati - nel caso della Deutsche Bank si ha un’esposizione in derivati e non in crediti tradizionali - non sono troppo mal messe. Così come non sono mal messe se detengono il debito pubblico della Germania, che non è rischioso. Grazie al loro debito pubblico non rischioso, infine, non sono interessate agli euro-bond.
3 - la fine di un’epica
UniCredit ha deciso di vendere le azioni di Mediobanca, che ha in portafoglio fin dalla notte dei tempi. Il controvalore è inferiore ma non troppo al miliardo di euro. UniCredit continua così a vendere le proprie partecipazioni insieme ad un corposo aumento del capitale varato un paio di anni fa. La notizia “vera” non è però questa, ma un’altra.
Si torni indietro nel tempo. Venti e passa anni fa non sarebbe stato nemmeno concepibile che una delle tre Banche di Interesse Nazionale - Credito Italiano, Banca di Roma, Banca Commerciale - potesse vendere la quota di azioni che deteneva in Mediobanca. La quale ultima non era azionista delle tre banche, che, al contrario, erano le sue azioniste, ma queste, le controllanti, non avrebbero osato muoversi in maniera indipendente. Come mai le cose andavano in questo modo?
Torniamo agli anni Trenta (nientemeno). Le banche dette “miste” - gli istituti che oltre al credito ordinario, erogavano anche quello a più lungo termine, ed, infine, avevano partecipazioni azionarie nelle imprese che erano loro clienti – ebbero un gran ruolo nel forzare l'industrializzazione dell'Europa Continentale nel XIX e gli inizi del XX secolo. Gli investimenti reali erano forzati ben oltre il livello che sarebbe stato possibile con il solo autofinanziamento e con i conferimenti di capitale dei soci.
Se una banca eroga ad un'impresa un credito a lungo termine che finanzia raccogliendo depositi a breve termine, ossia se ha dei crediti a scadenza lunga a fronte di impegni che sono richiamabili all'istante (i depositi a vista), può accadere che si trovi mal messa se i crediti a lunga scadenza non sono “di qualità”. Se i crediti non sono di qualità, e la banca è pure azionista del debitore, può accadere che essa sia tentata dall'intervenire sottoscrivendo degli aumenti del capitale.
Ma se la banca non ha non ha una copertura patrimoniale sufficiente di suo, si espone ancora di più. Dopo la Grande Guerra e durante la Grande Depressione questi problemi esplosero. Le imprese industriali andavano male e le banche erano esposte troppo. Fu così che in Italia le banche miste furono salvate.
Nel 1933 nacque l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che comprò sia le banche sia le imprese di cui le banche erano azioniste. L'idea era che, dopo il salvataggio, tutto sarebbe ritornato nel settore privato. L'idea iniziale era perciò quella di uno statalismo pro tempore. Invece, arriva la Seconda Guerra, la privatizzazione è rimandata sine die, con l'economia che è di nuovo messa malissimo.
Nel il 1946 è il turno di Mediobanca, la quale è, a ben guardare, la frantumazione virtuosa della banca mista. Intanto, i crediti a scadenza lunga non sono più finanziati con depositi a vista, ma con i depositi a risparmio, oppure con obbligazioni, quindi si ha un credito a fronte di un debito di durata equivalente. Poi si possono collocare le azioni e le obbligazioni delle imprese clienti, per rafforzarle finanziariamente. Infine, si possono avere degli investimenti diretti in azioni, ma rigorosamente contenuti in rapporto al capitale di rischio.
Facendo così, non si hanno i difetti della banca mista, ma si hanno i vantaggi: gli investimenti reali possono essere forzati oltre l'autofinanziamento delle imprese ed i conferimenti dei soci. Quando si diceva con espressione pop che in Italia c'erano “i capitalisti senza capitali”, si intendeva questo.
Mediobanca nasce avendo come soci le Banche di Interesse Nazionale finite nell'IRI, le quali, oltre al capitale di rischio, mettono a disposizione di Mediobanca la loro rete di agenzie per la raccolta dei libretti a risparmio e delle obbligazioni. Mediobanca nasce perciò snella, perché non ha bisogno di una rete commerciale per la propria raccolta. E resta snella anche in sede del collocamento delle azioni e delle obbligazioni delle imprese, perché queste sono assorbite di nuovo dalle agenzie delle banche.
Dopo qualche anno Mediobanca diventa la protagonista della finanza italiana, si noti una finanza volta al finanziamento degli investimenti delle imprese. Con il tempo, cresce anche l'impegno come azionista. Siamo così giunti ai “noccioli duri”. Agli azionisti di riferimento, quando necessario, si alleava Mediobanca con quote proprie, allo scopo di dare stabilità e continuità. Nel caso delle Generali, la storia era diversa. La sua potenza di fuoco (la dimensione del suo attivo) rispetto alle imprese italiane era tale che, in caso di bisogno, essa potevano prendere la partecipazione necessaria. Non era necessario che la prendesse, bastava la minaccia. Le Generali erano come la “Grande Berta”, era lì enorme e minacciosa anche se non sparava, da qui la sua importanza. Questo sistema è andato avanti fino agli anni Novanta. Ha tenuto in piedi quel che poteva, se si tiene conto della crisi che si manifesta in Italia a partire dagli anni Settanta.
Il sistema che ha dato vita a Mediobanca è stato diretto soprattutto da intellettuali del Meridione: Beneduce, Menichella, Mattioli, Tino, Maccanico, Cuccia. Costoro erano emersi durante Fascismo, ma non erano fascisti, e il loro lascito è durato fino a non troppo tempo fa. La frantumazione virtuosa della banca mista - ossia Mediobanca - ha avuto come protagonisti dei servitori dello stato che difendevano il perimetro dell'iniziativa privata.
Il sistema Mediobanca poco a poco si ridimensiona. Ciò avviene a partire dagli anni Novanta, quando le banche di credito ordinario possono tornare ad agire come banche miste. A quel punto – quando azioniste - si trovano in conflitto con Mediobanca in sede di collocamento dei titoli azionari e obbligazionari di società terze. Inoltre, il sistema dei noccioli duri si è rivelato costoso, perché impegna del capitale per ragioni di sistema, ma il capitale impegnato può essere poco redditizio. Cade il quasi monopolio in sede di collocamento, così come cade il sistema dei noccioli duri per tenere coeso il sistema.
E siamo tornati all’oggi.
Fonti:
Nell’ultima settimana le prime due note sono state pubblicate su Limes, la terza su Linkiesta
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