Il Brasile sta vivendo, dal punto di vista economico, il miglior periodo della sua storia. E questo nonostante la crisi internazionale da cui, al momento, sembra essere non solo «al sicuro» ma, anzi, tra i pochi paesi al mondo che ne sta traendo notevoli «vantaggi comparati».

Per rendersene conto è sufficiente leggere i principali giornali economici anglosassoni, dal Financial Times a The Economist, passando per il Wall Street Journal e Forbes che, quasi quotidianamente, confermano il buon momento del gigante sudamericano e sfornano numeri macro sempre più sorprendenti. Dalla crescita che nel 2010 è stata del 7,5% alla disoccupazione ai minimi storici del 6%, a un avanzo commerciale record di 22,5 miliardi di dollari dal 1° gennaio 2011 (2,5 dei quali nei primi 18 giorni di settembre), il Brasile è quindi sugli scudi della stampa che conta. Come se non bastasse, sia la Coppa del Mondo di calcio del 2014 che le Olimpiadi di Rio del 2016 sembrano aver trasformato il paese dalla patria ideale per gli investimenti speculativi «mordi e fuggi» a un’opportunità da non perdere per gli investitori.

Nell’opinione pubblica italiana resiste invece – e qui una responsabilità ce l’hanno i mass media a cominciare dalla Tv – lo stereotipo del Brasile paradiso del calcio, delle mulatte e del carnevale e non una potenza economica con un Pil ormai superiore a quello italiano. Lo scorso anno, infatti, il Brasile ha superato l’Italia posizionandosi all’8° posto tra le nazioni che producono di più al mondo – l’Italia è al 9° posto, dieci anni fa era al 5°. Per la cronaca, secondo le stime ufficiali della Banca Mondiale, nel 2016 il Brasile sarà la quarta potenza al mondo per il Pil.

Tutti sembrano insomma volere investire in Brasile, paese che dall’agosto 2010 è addirittura diventato un creditore netto del FMI e che ha una serie di imprese a partecipazione statale che si stanno rapidamente espandendo nel resto del pianeta, a cominciare dalla Petrobras, la quarta compagnia petrolifera più capitalizzata al mondo, e dalla Vale do Rio Doçe, la seconda mineraria del globo. A metà settembre il ministro dell’Economia Guido Mantega, che parla un ottimo italiano essendo nato a Genova e che dal 4 all’11 ottobre guiderà una delegazione di 250 imprenditori verde-oro in Italia, ha addirittura offerto l’aiuto dei BRICS (il gruppo dei paesi emergenti che, oltre al Brasile, annovera tra le sue fila Cina, Russia, India e Sud Africa) per «dare una mano all’Europa a uscire dalla crisi».

Ma cos’è cambiato rispetto a quando alla presidenza c’era il socialdemocratico Fernando Henrique Cardoso, due mandati consecutivi tra 1994 e 2002? La domanda è doverosa anche perché – almeno a detta di parecchi analisti brasiliani – prima Lula (dal 2003 al 2010) e da quest’anno Dilma Rousseff non avrebbero cambiato granché le politiche fiscali e monetarie rispetto ai governi di Cardoso. Ciò è vero solo in parte perché, a differenza del loro predecessore, gli ultimi due governi hanno puntato al massimo sull’inclusione sociale di quei brasiliani esclusi da ogni circuito economico, a cominciare da quello del microcredito rurale, sfruttando un vantaggio che solo il Brasile può vantare in Sudamerica, ossia quello di un mercato interno di «potenziali consumatori» di quasi 200 milioni di persone. Come lo hanno fatto? Attraverso programmi enormi per le dimensioni di infrastrutture, inclusione sociale e apertura del credito. Basti pensare al programma «Luce per tutti», avviato nel 2003 e che solo nel nord-est del paese ha portato per la prima volta l’energia elettrica a 10 milioni di brasiliani. Un’«inclusione elettrica rurale», così l’hanno battezzata, fatta dalla statale Eletrobras che, naturalmente, ha fatto la felicità di decine di imprenditori brasiliani dal momento che «quasi tutti i beneficiari del programma hanno comprato una tv o una radio, oltre 3 milioni una lavatrice», per ammissione dell’ex presidente Lula. Stessa logica per il programma «Mia casa mia vita», con la costruzione negli ultimi due anni già di oltre 1 milione di abitazioni e che, nel prossimo triennio, prevede di realizzarne altre 2,5 milioni. L’indotto produttivo privato che ne beneficia, qui, è quello del settore edilizio e non del settore degli elettrodomestici, come in «Luce per tutti», ma il concetto di fondo è lo stesso: stimolare il mercato interno in un momento di crisi internazionale. Per non parlare del programma «Borsa famiglia», che ha fatto uscire dalla povertà assoluta una trentina di milioni di brasiliani, concedendo loro un sussidio, o del microcredito esteso ad altrettanti abitanti delle zone rurali che, per la prima volta, hanno aperto un conto corrente bancario.

Rispetto agli anni Novanta, tuttavia, un altro elemento chiave è cambiato, ossia il ruolo degli Stati Uniti verso il Brasile in particolare e l’America Latina più in generale. Se infatti escludiamo il Messico – che per la vicinanza geografica rimane una priorità per Washington –, dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti hanno progressivamente abbandonato la politica del cosiddetto «Big Stick», il «Grosso Bastone», introdotta da Theodore Roosevelt all’inizio del Novecento. Con lo scenario delle priorità statunitensi spostato in primis sulle guerre di Afghanistan e Iraq e, in secondo luogo, sulla Cina – la vera competitor globale di Washington sul piano economico – l’America Latina oggi non è più il backyard, ovvero il «giardino di casa» di Washington. Già prima il crollo del Muro di Berlino aveva tolto a Washington gran parte delle necessità «strategiche» di intervenire con intelligence e aiuti militari in funzione anti-comunista in Brasile, come fu durante tutto il quarantennio della Guerra Fredda. L’11 settembre ha accelerato questo «distacco» di Washington, consentendo a Brasilia di puntare in massima autonomia sul commercio con i paesi del sud del mondo a cominciare dalla Cina, oggi suo primo partner commerciale avendo superato due anni fa proprio gli Stati Uniti.

Dietro al miracolo brasiliano c’è poi dal punto di vista economico un mix di politiche monetarie e fiscali anticicliche volte all’inclusione sociale delle classi più povere, tradizionalmente escluse dal circuito dei consumi e dall’accesso al credito. Politiche rese possibili da un sistema bancario considerato oggi, per la presenza di grandi istituzioni statali solidissime, tra i più sicuri al mondo. Mentre negli Stati Uniti il rapporto riserve-depositi bancari oscilla fra il 3 e il 10% e in Cina è del 15%, in Brasile era, sino al periodo pre-crisi, del 45%. È stato dunque sufficiente alla banca centrale verde-oro abbassare questa percentuale a 42 affinché si liberassero 69 miliardi di dollari di crediti in funzione anticiclica. Se dunque dal punto di vista geo-economico l’11 settembre ha favorito il Brasile, non v’è dubbio che l’avere potuto contare su tre grosse banche pubbliche, che non furono privatizzate negli anni Novanta, ha rappresentato a partire dal 2008 un indubbio vantaggio comparato rispetto a un paese come l’Italia che, per di più, ha ceduto ogni potere in merito alla politica monetaria alla BCE da quando è entrata nell’euro. Il BNDES per il finanziamento delle grandi imprese, la Caixa Economica Federal per il credito ai privati e il Banco do Brasil sono i tre pilastri del «sistema pubblico Brasile» che, in partnership con un settore privato all’altezza, hanno consentito al paese del samba di navigare in acque tutto sommato tranquille dal 2008, quando la bufera della crisi statunitense dei subprime ha sparigliato le carte delle economie occidentali.