Il paese del samba sta vivendo un vero e proprio boom, per certi versi comparabile a quello italiano degli anni Sessanta. Tutte le più grandi multinazionali vogliono entrare in Brasile, dalla Samsung alla coreana Hyundai passando per le rampanti aziende cinesi, la lista è infinita. Persino due colossi tv come Al Jazeera, con investimenti miliardari, e la CNN con un budget assai più limitato, stanno progettando da mesi l’apertura di una sede a Rio per coprire «live» il Brasile.
Chi nel paese poi c’è già – per l’Italia si pensi a Fiat, che con Volkswagen si disputa la leadership nel settore auto, o a Telecom Italia grazie alla presenza di Tim Brasil, secondo maggiore operatore della telefonia mobile nel paese – ringrazia il cielo di aver puntato sul paese del samba già anni fa, quando non era ancora «di moda». Quindici anni fa, infatti, era l’instabilità del cambio e la volatilità degli investimenti a fare del Brasile uno dei mercati più rischiosi del globo, mentre oggi sembrerebbe vero il contrario.
Tutto bene dunque? Ed è poi vero che oggi investire nel paese del samba sia così sicuro, come l’ottimo apparato marketing brasiliano, che in maniera sinergica unisce pubblico e privato, è riuscito a far credere alla stampa che conta? In realtà, sono almeno cinque gli elementi di criticità del Brazilian boom che, a un’attenta analisi, lasciano perplessi.
Il primo problema è la mancanza di manodopera qualificata. «Stiamo importando ingegneri da Portogallo, Spagna, Cile, Argentina e persino Stati Uniti», spiega un alto dirigente della Cyrela Brazil Realty SA Empreendimentos e Participacoes, la seconda principale azienda brasiliana nel settore delle costruzioni. Come lui, quasi tutti gli imprenditori che operano in Brasile lamentano la mancanza di manodopera qualificata in quasi tutti i settori. Dalla ristorazione – e stiamo parlando di camerieri – all’industria manifatturiera con un qualche «valore aggiunto», la scarsità di «forza lavoro qualificata» è «il problema» del Brasile targato 2011. Il ministero dello Sviluppo e dell’Industria di Brasilia ha annunciato qualche mese fa che si porrà come intermediario tra le associazioni di categoria dei vari paesi in rappresentanza dei giovani disoccupati e gli imprenditori e le aziende brasiliane interessate ad accogliere la manodopera qualificata dal resto del mondo. Al momento però poco o nulla si è mosso, al di là degli annunci.
Il secondo problema enorme, strettamente connesso alla mancanza di manodopera specializzata, è l’incapacità delle università verde-oro di formare laureati e dirigenti sufficientemente qualificati per far fronte alla concorrenza internazionale in molti settori. Con il boom economico che il Brasile sta vivendo e la crescita esponenziale degli interscambi commerciali, quello della formazione – o meglio, della scarsa formazione – rappresenta un’altra drammatica criticità. Non a caso il governo Rousseff ha appena varato un programma che prevede 75.000 borse di studio per fare aggiornare all’estero altrettanti universitari verde-oro, altre 25.000 dovrebbero essere offerte dalle principali aziende brasiliane. Tuttavia, ci vorranno anni, forse decenni, prima che la scuola pubblica (ma anche la privata, che nonostante i prezzi è di livello medio-basso), dalle elementari alle università, possa recuperare il gap con altri emergenti quali Cina, Russia e India. Chi volesse delocalizzare in Brasile la sua attività, dunque, dovrebbe pensare anche a questa problematica non di poco conto, soprattutto nel settore delle produzioni ad alto valore aggiunto.
Il terzo problema per le aziende straniere che vogliono entrare in Brasile è rappresentato dal cosiddetto «protezionismo legale», che, spesso, si trasforma in «insicurezza giuridica». Nonostante i negoziati tra Unione Europea e Mercosur, che si trascinano oramai da decenni, oggi il Brasile – che del Mercosur è il cardine – rimane un paese fortemente protezionista. Per rendersene conto è sufficiente guardare ai prezzi dei beni di consumo importati quali, ad esempio, i vini e gli alimenti, ma anche i computer o le automobili. Inoltre, il «salasso protezionistico» è aggravato dai costi di una rete distributiva piena di bottlenecks, il che costringe i consumatori brasiliani a spendere dalle tre alle dieci volte il prezzo di un consumatore europeo o statunitense per bere una bottiglia di vino italiano o per acquistare un iPad di ultima generazione.
Altro elemento critico, il quarto dell’elenco, è quello dell’«incertezza legislativo/giuridica». Per capire ciò di cui stiamo parlando basti pensare alla misura resa nota dal ministro dell’Economia brasiliano Guido Mantega, lo scorso 15 settembre, di aumentare del 30% l’imposta sulle auto importate e su quelle che, pur prodotte in Brasile, non contengano almeno il 65% della componentistica locale. Un segnale preoccupante che, oltre a indicare che la «tendenza iperprotezionistica» del paese del samba non accenna a diminuire, inquadra bene l’«incertezza» di cui sopra. Il decreto 7567 firmato da Mantega ha portato l’Abeiva, l’associazione che riunisce i marchi Bmw, Audi, Land Rover, Ferrari, Lamborghini, Volvo, Chrysler, Kia, Suzuki, Maserati e di altre 27 case automobilistiche, ad acquistare una pagina su tutti i principali giornali per protestare contro questa «misura inspiegabile». «Se volevano davvero proteggere la produzione nazionale», si chiede l’Abeiva, «perché invece di aumentare del 30% la tassazione sulle importazioni di auto non hanno abbassato della stessa percentuale le imposte sul parco macchine prodotto qui, che sono di gran lunga le più alte al mondo?». La domanda è cruciale anche perché, se si sommano tutte le tasse sulle auto prodotte in Brasile, si supera ampiamente il 45%, un record mondiale che fa già oggi delle auto made in Brazil un prodotto che costa al consumatore almeno il doppio di quanto non costi in Occidente. Il «protezionismo legale» pone dunque un’incertezza molto elevata per chi voglia investire in Brasile. Non a caso al «decreto Mantega» hanno opposto una reazione furiosa soprattutto Cina e Corea, paesi emergenti tradizionalmente alleati del Brasile che hanno minacciato lo stop dei loro investimenti nel paese. «La costruzione della fabbrica che avevamo intenzione di aprire nel 2014», ha detto il presidente della cinese Jac Motors, «diventa impossibile con queste regole» perché «avere almeno il 65% delle auto fatte con componenti brasiliani fa sì che dovremmo andare in perdita per tre anni, sino al 2017. Impossibile, ripeto».
Il quinto problema del Brazilian boom è il «rischio» che è insito in qualsiasi «economia troppo surriscaldata». Gran parte della crescita dei surplus commerciali brasiliani è infatti dovuta ai prezzi record delle materie prime, di cui il paese del samba continua a essere il primo fornitore globale. Inoltre, con un tasso ufficiale di sconto record, pari all’11,5% annuale, molti investitori stranieri sono entrati in modo speculativo sul mercato. Si tratta soprattutto di capitali provenienti da Stati Uniti ed Europa, dove invece i tassi d’interesse sono molto bassi. Per questo molti investitori occidentali hanno deciso di mettere nelle banche brasiliane i loro capitali, e senza fare nulla stanno raccogliendo interessi pari a circa l’1% mensile. Una situazione simile a quella dell’epoca d’oro dei BoT in Italia. Ma una situazione pericolosa perché, oltre a surriscaldare il mercato, ha fatto valorizzare di quasi il 60% in cinque-sei anni la valuta locale, il real, nei confronti del dollaro e di poco meno verso l’euro. Ed è proprio il cambio esageratamente forte il secondo elemento che preoccupa molto il governo di Dilma Rousseff, direttamente legato al primo, ovvero il tasso ufficiale di sconto molto alto. Perché con un real che negli ultimi anni ha raddoppiato il suo potere d’acquisto nei confronti di dollaro ed euro, non deve stupire se i brasiliani sono oggi i principali clienti di Disneyworld a Orlando, in Florida, o se le importazioni verde-oro dal resto del mondo sono cresciute come mai in passato. Il risultato, però, è stato una crisi della produzione delle pmi brasiliane, visto che è più conveniente importare prodotti dall’estero. Una crisi sinora nascosta in parte dall’aumento delle richieste sul mercato interno della nuova «classe media», oggi maggioranza nel paese del samba, e in parte dall’aumento dei prezzi imposto proprio dai produttori «strozzati» dalla concorrenza dei prodotti importati con il real forte. Finora, a mantenere più o meno in equilibrio la bilancia commerciale, malgrado il real forte, hanno contribuito commodities e materie prime, i cui prezzi alle stelle hanno aiutato il Brasile che, nonostante alcuni miglioramenti, vende al mondo prodotti per il 75% senza alcun valore aggiunto. Difficile prevedere sino a quando l’equilibrio terrà. Di certo c’è che, nelle ultime settimane, la banca centrale brasiliana ha informato che l’Ipca, ovvero l’indice dei prezzi al consumo, è aumentato dal 6 al 6,26%, e la previsione è che il trend di crescita continui nei prossimi mesi.
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