Il fallimento degli istituti globali di grandi dimensioni sono stati all’origine di shock che dopo essersi propagati all’interno del sistema finanziario, hanno finito per avere impatti dirompenti sull’economia reale. Ciò è potuto accadere sia per un’errata valutazione dei rischi, la ben nota questione della subprime mortgage financial crisis, sia per la convinzione che se le cose fossero andate a finire male, la loro condizione di istituzioni finanziarie di rilevanza sistemica globale (global systemically important financial institutions o G-SIFI), quelle in sostanza che sono troppo grandi per fallire, too big to fail, avrebbe spinto i governi ad intervenire per sostenerle, come in alcuni casi è accaduto.

Si è trattato di una classica situazione di moral hazard, divenuto ormai un tema popolare nel dibattito sulla crisi finanziaria degli ultimi anni. Per evitare di intervenire quando il danno è compiuto, il Comitato di Basilea lavora assiduamente da anni per raggiungere un’intesa su un Nuovo Accordo Patrimoniale (New Capital Accord) finalizzato ad attenuare l’incentivo del moral hazard e ridurre la probabilità e la gravità dei problemi derivanti dal fallimento delle grandi istituzioni finanziarie.

L’accordo sul capitale di Basilea III che entrerà a regime dal 1 gennaio 2015 ha imposto pertanto a tali istituti di aumentare i requisiti minimi di common equity dal 2% al 4,5% e di mantenere un cuscinetto di capitali del 2,5% per rafforzare la capacità di tali intermediari di assorbire perdite ingenti. Il che porta i requisiti complessivi di common equity al 7%.

L’opportunità di lasciare fallire quelle banche che, seppur di rilevanza sistemica, hanno avuto un ruolo così spericolato continua ad alimentare vivaci polemiche nell’ambiente economico. Tuttavia prevale la sensazione che le Autorità non sembrano molto convinte sulla capacità delle misure previste da Basilea III di affrontare la complessità del risk management bancario, in particolare nelle operazioni di copertura de rischi correlati ai prodotti derivati, e di conseguenza prevenire condotte cattive da parte di tali intermediari nei cui bilanci persistono ancora quantitativi discreti di titoli tossici.

Panacea oppure opportunità mancata, la rischiosità percepita dal mercato e dai regolatori rimane comunque elevata come il timore che in futuro i cittadini saranno nuovamente obbligati a salvare le banche con i propri soldi. Ed è questo il motivo per cui il Financial Stability Board, che riunisce le autorità di controllo delle banche e dei mercati dei maggiori Paesi industriali e dei Paesi emergenti, da anni continua a chiedere alle banche di agire sul proprio patrimonio, unico elemento che si presta ad essere quantificato. Nello specifico Mark Carney, presidente del FSB e governatore della Banca d’Inghilterra ha recentemente proposto di imporre a trenta banche globali d'importanza sistemica, fra cui Hsbc e J.P.Morgan e l’italiana Unicredit, un adeguamento del patrimonio capace di assorbire il totale delle perdite (Tlac) fra il 16 e il 20% dell’attivo ponderato per il rischio. Si tratterebbe quindi di costituire, entro gennaio 2019, un cuscinetto di protezione composto da essenzialmente da equity, o bond da convertire in capitale in caso di necessità al fine di salvare le banche “too big too fail”, senza il ricorso agli aiuti pubblici. “Perché il piano di salvataggio a carico dei contribuenti nel 2008 e nel 2009 è stato “assolutamente ingiusto”, ha dichiarato Carney.

Insomma non si è ancora concluso il percorso di Basilea 3 che già si parla di una Basilea 4. La proposta del FSB, al vaglio del G20 in programma il 2 febbraio in Australia, mira a trasferire il costo del salvataggio delle banche ad azionisti e creditori che in tal modo sono esposti al rischio di perdere tutto quello che hanno investito. Si intende in sostanza favorire lo sviluppo di una cultura finanziaria ponendo alla base il concetto di responsabilità.

Tuttavia, come ammette lo stesso FSB, la necessità costituire il cuscinetto di liquidità sufficiente a rendere le trenta banche di rilevanza sistemica più solide nel far fronte ad eventuali nuovi scenari di crisi, si potrebbe tradurre non solo in una riduzione dei dividendi o dei bonus al personale ma altresì in maggiori costi per la clientela, con un impatto non trascurabile sui risparmi. E tutto questo mentre le banche dichiarano candidamente di non voler allentare la stretta creditizia a famiglie ed imprese, nonostante gli sforzi della Bce di mettere a disposizione delle banche europee più liquidità. E senza contare che la questione dell’eccessiva complessità dei modelli interni di assorbimento patrimoniale previsti e la non sufficiente trasparenza rimangono tuttora aperte.

Ma tutto a suo tempo, per il Financial Stability Board adesso la priorità è garantire che mai più i contribuenti dovranno intervenire per salvare le banche “too big too fail”.