Donald Trump ha vinto. Dopo tutte le emozioni scatenate dalla lunga, gotica, sporca campagna presidenziale può essere utile restare ai numeri. Per restituire un quadro il più accurato possibile dei cambiamenti che attraversano l'America della quale Trump sarà presidente, ecco qualche riflessione sparsa.

 

PROPORZIONI. Questa del 2016 non è una landslide election, anzi. Si parla (lo hanno fatto persino il New York Times e il Washington Post) di trionfo di Trump, per la indubbia portata simbolica, emotiva e di rivendicazione che questo voto assume. Ma dal punto di vista tecnico è un pareggio. Hillary Clinton ha addirittura vinto il voto popolare con circa 240mila voti di vantaggio, 47,7% a 47,5% - il che nel sistema elettorale americano è irrilevante, ma dà il segno di quanto combattuta sia stata la scelta. Che nelle proporzioni generali assomiglia più al 2000 (Bush vs. Gore) o al 1960 (Kennedy vs. Nixon) che alle valanghe di Nixon ’72 e Reagan ’80 o alla forte affermazione di Obama ‘08. Questo non toglie in alcun modo valore al risultato (Trump ha vinto in modo spettacolare rispetto alle previsioni), ma aiuta a capire le dinamiche del voto e le reali forze in campo su cui possono contare i due partiti.

IL SENATO. E’ rimasto in mano ai repubblicani, sebbene con una lieve erosione. 51 senatori a 48 è un risultato che supera le più rosee aspettative del GOP, come ha detto il chairman del partito Paul Ryan. In questo ramo del Congresso i repubblicani si aspettavano un arretramento, tale da far perdere loro la maggioranza che avevano conquistato nel 2014 e da consegnare un parlamento diviso. E invece adesso controllano camera, senato e presidenza. Questo darà ampio margine di intervento almeno ai primi due anni di presidenza Trump, con tutto quello che ne consegue - rigetto dell’Affordable Care Act e della legislazione di Obama, nomina del giudice vacante della Corte Suprema, e così via.

RURAL AMERICA. Non è snobismo né misantropia dire che Trump ha scommesso sui bianchi di bassa istruzione e di basso reddito... e che ha vinto la scommessa. E’ la verità [http://www.nytimes.com/interactive/2016/11/07/us/how-trump-can-win.html]. Con l’eccezione della Florida, gli stati che Trump ha conquistato si collocano tutti in questa sfera: vasta popolazione bianca nelle aree rurali, che è riuscita a superare di misura la popolazione urbana. La quale generalmente è sempre più democratica. Questa regione politica americana ha un suo centro ideale nella West Virginia, un tempo terra di lavoratori sindacalizzati e ora luogo di (comprensibile) risentimento per l’impoverimento medio, dove ormai da un ventennio vince la destra. La West Virginia appartiene all’immaginario della desolazione americana, è lo Stato al quale nessun altro stato desidera di assomigliare: provinciale, isolata, impoverita, racchiusa tra le montagne, priva di fascino. Ma nell’anno elettorale 2016 la west-virginization (se questa parola non offende troppo le orecchie di chi la ascolta) ha toccato Ohio, Michigan, Wisconsin e persino la Pennsylvania, a dispetto della vasta conurbazione di Philadelphia, dopo che aveva investito l’Indiana e l’Iowa nel 2012. E’ una nazione bianca e povera. Che ha trovato Hillary Clinton meno persuasiva persino di Barack Obama.

ISPANICI. La Florida aggiunge a questo quadro un dato in più. Non sono solo i bianchi ad aver votato in maggioranza Trump; anche presso gli ispanici si è verificata una inattesa maggiore quota di voti per il repubblicani. Gli ispanici, dicono i primi e imperfetti exit poll [http://www.usatoday.com/story/news/politics/elections/2016/2016/11/09/hispanic-vote-election-2016-donald-trump-hillary-clinton/93540772/], avrebbero votato per Hillary in una quota che a livello nazionale si attesta intorno al 65%. Vi sembra tanto? Non lo è. Nel 2012 aveva votato per Obama il 71%. E quest’anno il candidato repubblicano ha ripetutamente preso di mira gli ispanoamericani e ha fatto campagna su un gigantesco muro al confine con il Messico. Sembra che in Florida Trump abbia ricevuto un consenso ispanico ancora superiore alla media nazionale: questo dovrebbe essere dovuto alla presenza nello Stato di esuli cubani, aspramente anticomunisti, e delle loro famiglie. Complessivamente, il messaggio che viene dal Sunshine State al Partito Democratico è che il voto delle minoranze non è così automaticamente prevedibile come appariva nell’era Obama. Obama vinse coalizzandole tutte attorno alla propria figura; forse quello fu un exploit, forse no, in ogni caso bisognerà studiare meglio quanto sia forte l’affiliazione delle minoranze ai grandi partiti nella nostra era e quanto contino in queste dinamiche la permanenza da più o meno tempo sul suolo americano - ovvero, quel processo che in sociologia è chiamato assimilazione.

ORANGE COUNTY. Forse mai come quest’anno la California ha votato in controtendenza rispetto al resto del Paese: Trump al 33%, Hillary che fa meglio di Obama in quasi tutte le contee lungo la costa. Vento che soffia sul fuoco di “Yes California”, la cosiddetta “Calexit”, cioè il progetto di secessione dello Stato dal resto della nazione che vuole portare i cittadini a votare nel 2019 [https://en.wikipedia.org/wiki/Yes_California] per uscire dall’Unione. In nome della differenza californiana. E in California, nessuna contea esemplifica meglio questa originalità della Orange County [http://www.latimes.com/politics/la-me-oc-clinton-20161109-story.html]. Per la prima volta dai tempi della Grande Depressione la contea della California a sud di Los Angeles ha votato per un democratico. Ottant’anni! Chi vive nella Orange County? Questa è una delle icone del benessere californiano e per anni lo è stata dell’edonismo reaganiano. Persone benestanti circondate da persone benestanti. Nuovi ricchi. A cui si sono aggiunti giovani professionisti ambiziosi e poi via via una popolazione più etnicamente diversa. L’immigrazione ha reso questa contea sempre più urbanizzata e demograficamente varia, con una notevole presenza di asiatici, ispanici e abitanti del Pacifico. Simili progressi i democratici li registrano nella cintura urbana di Atlanta, nell’area metropolitana di Washington D.C., tra Fairfax e Alexandria, nelle contee atlantiche della Virginia.

THE RELIGIOUS RIGHT. Non pervenuta. Dopo l’enorme rilevanza assunta da predicatori e conservatori religiosi negli anni di Reagan - dal reverendo Jerry Falwell al cristiano rinato George W. Bush, giù fino ai mormoni Romney - questa è stata una delle elezioni più secolarizzate di sempre. Dio - nel senso della religione in politica - è stato il grande assente dai discorsi di entrambi i candidati. E questo è interessante in casa repubblicana, ovviamente, dipendendo soprattutto dalla personalità di Trump, un newyorkese ex elettore democratico assai lontano dalle cose di chiesa. Ma la notizia è che questo non sembra avergli alienato granché dei consensi considerati in passato strategici per il GOP. La differenza con le campagne elettorali di solo dieci, quindici anni fa è notevole. Anche l’emorragia di consensi dei mormoni in Utah non ha impedito al magnate newyorkese di vincere lo Stato, dunque è consegnata alla irrilevanza.