Il capitale umano può accrescere la produttività di un Paese, influenzando di conseguenza il benessere individuale e collettivo della società
Spesso si sente ripetere l’adagio “gli elementi chiave per il benessere economico - sociale e per la crescita sono la produttività e lo sviluppo”. Ebbene, l’andamento di questi fattori è strettamente collegato alla capacità di un Paese di investire e accrescere il proprio capitale umano, tenendolo costantemente allineato alle nuove esigenze frutto dei dirompenti sviluppi tecnologici. Con il termine “capitale umano” si intende l’insieme delle conoscenze e delle capacità produttive possedute dalla forza lavoro di un Paese e che contribuiscono attivamente alla produzione economica e allo sviluppo sociale di quest’ultimo; skill che vengono acquisite attraverso l’istruzione, la formazione e l’esperienza lavorativa. Inoltre, sebbene siano materialmente connessi, si distingue il capitale umano dal cosiddetto “capitale sociale” in quanto concettualmente sono assai diversi: con capitale sociale si intende infatti abitualmente la capacità di instaurare relazioni sociali costruttive e di lungo periodo.
Il capitale umano, studiato dalla prospettiva degli economisti, è stato più volte paragonato a un investimento in un bene, che produce un certo rendimento. A tale proposito si è parlato di rendimento implicito o di tasso interno di rendimento, indicatore che viene utilizzato dagli economisti per indicare in quale misura un anno di istruzione in più aumenta i benefici netti individuali. I vantaggi derivanti dal capitale umano sono molteplici e vengono definiti come esternalità produttive o positive: il capitale umano può infatti accrescere la produttività totale di un paese, influenzando di conseguenza in questo modo il benessere individuale e collettivo della società. Vi sono poi anche esternalità positive nell’ambito della salute: è stato infatti stimato che il valore della prevenzione è maggiore per le persone più istruite, per le quali il costo monetario della malattia è più elevato.
I dati Istat relativi all’investimento monetario in capitale umano purtroppo non sono recenti bensì, al contrario, risalgono al 2006. In Figura 1 sono rappresentati i finanziamenti stanziati da alcuni Paesi UE ed extra UE per il capitale umano pro capite rispetto al Pil pro capite (in migliaia di dollari USA) per quell’anno1.
Come si può facilmente notare dal grafico, mentre in nazioni come gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Norvegia si è investita una cifra considerevole, in Italia ciò non è accaduto: il nostro paese ha ad esempio destinato al capitale umano poco più della metà della cifra impiegata dagli Stati Uniti.
Essendo il capitale umano strettamente legato all’istruzione, come prevedibile, in tutte le nazioni considerate, la classe d’età che più ha beneficiato degli investimenti è stata quella dei giovani tra i 15 e i 34 anni (Figura 2); contemporaneamente, quella che ne ha beneficiato di meno è stata invece la classe d’età 55-64.
Se si analizzano invece i dati, sempre relativi alla stessa voce di investimento, suddivisi per genere, emerge chiaramente come il maggiore rendimento dei finanziamenti sia declinato al maschile (Figura 3), complice anche a livello globale un sistema che nutre ancora pregiudizi nei confronti delle donne e che molte volte le penalizza in ambito accademico e lavorativo. In tutti i paesi considerati, infatti, si può notare come sia presente un notevole divario di genere; gap che nella maggior parte delle nazioni (tutte escluse Polonia e Romania) fa sì che la colonna degli uomini sia alta praticamente quasi il doppio di quella delle donne. Tale divario di genere si riscontra anche quando si considerano i rendimenti netti dell’istruzione e non solamente quelli relativi al “lontano” 2006 ma anche quelli risalenti al più “vicino” 2015 (Figura 4). Il grafico sottolinea inoltre come, sorprendentemente, il ritorno economico dell’investimento in istruzione sia maggiore per quanto riguarda la scuola secondaria rispetto al quella terziaria (alias università). Essere in possesso di una laurea sembrerebbe dunque non rappresentare un significativo vantaggio.
In aggiunta, negli ultimi anni di cui si hanno a disposizione i dati (periodo 2008-2015) per le nazioni sopracitate, la percentuale di spesa destinata all’istruzione sia dagli enti pubblici sia dagli enti privati, se confrontata con il PIL, non solo non è aumentata come auspicabile, ma al contrario è addirittura diminuita (Figura 5).
Se ci si concentra più nello specifico sul caso italiano, secondo i dati Eurostat, le imprese nostrane da anni investono molto poco in formazione: ad esempio, fra il 2013 e il 2014, solo il 5 per cento di queste ha tenuto corsi di formazione per l’Information Technology, contro il 16 per cento delle imprese tedesche. Al fine di migliorare le prospettive della nostra economia, si rivela tuttavia fondamentale cominciare a investire seriamente in formazione tecnica, sia a livello di istruzione scolastica sia di formazione sul lavoro.
Qualche politico, tra cui l’ex ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, si è occupato più volte di capitale umano, sottolineando come la carenza di questo fattore sia un problema che si traduce in una perdita economica in termini di produttività; tra le sue dichiarazioni, questa, estrapolata da un'intervista al Sole 24 Ore, è particolarmente significativa “L’Italia oggi soffre della mancanza di capitale umano e di competenze adeguate. Lo ha sottolineato un recente rapporto dell’Ocse, lo ha rilevato l’Istat e lo confermano le analisi prodotte dalle imprese alla ricerca di personale qualificato. Peraltro la stagnazione della produttività in Italia da oltre vent’anni è dovuta al combinarsi di scarsi investimenti in capitale fisico e il capitale umano”.
Dal momento che molti dei dati sopracitati fanno riferimento al 2006, è naturale domandarsi se in questi anni la situazione sia cambiata. Dalla Figura 6 e dalla Figura 7 si evince tuttavia chiaramente come tra i dati italiani relativi al 2006 e al 2018 non si possano riscontrare differenze significativamente sostanziali né per quanto riguarda il PIL pro capite né in termini di tasso occupazionale. Tenendo ciò in considerazione, pare dunque lecito estendere il discorso e l’analisi condotta sul 2006 anche al più recente 2018, assumendo vi sia una continuità.
Se si considerano quindi i dati più recenti a disposizione, emerge come al giorno d’oggi il capitale umano disponibile nel nostro Paese non sia del tutto qualitativamente sufficiente per affrontare le sfide del prossimo futuro: una richiesta su tre di laureati di area STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) rischia infatti di rimanere vacante. La spesa totale media per istruzione (da risorse pubbliche e private) in rapporto al Pil è in Italia costantemente inferiore a quella media dei paesi Ocse. Dall’inizio della crisi del 2008 fino al 2012 è fortemente diminuita ovunque; in Italia è passata dal 4,8% al 3,6% del 2012, nella media dei paesi Ocse da 5,9% a 4,8%, per poi iniziare una lieve ripresa nel 2013. L’investimento in istruzione produce ancora dei benefici monetari per gli individui che lo affrontano?
Secondo l’Ocse, il tasso di rendimento implicito dell’investimento effettuato quando si consegue un titolo di istruzione terziaria rispetto ad uno di secondaria superiore (ovvero il tasso d'interesse in corrispondenza del quale i benefici dell'investimento in un livello di istruzione superiore eguagliano i costi ), nel 2012 è stato pari all’8,8% per i ragazzi italiani e a ll’11,4% in media Ocse . Per le ragazze italiane la situazione è ancora più svantaggiata: 7,6% contro 11,6%. I bassi tassi italiani testimoniano che l’investimento in istruzione in tutto l’arco della vita attiva fornisce rendimenti inferiori nel nostro Paese rispetto agli altri paesi Ocse
Non sorprende dunque che in Italia si registri una percentuale di laureati decisamente minore rispetto alla media europea. Purtroppo, è inoltre possibile che la combinazione di questi fattori potrà nel medio termine portare ad una brusca frenata degli investimenti e dell’espansione malgrado i notevoli incentivi fiscali per l’industria 4.0, a cui potrebbe perciò conseguire una perdita di competitività del settore manifatturiero italiano. Aumentare pertanto il livello medio di istruzione pare essenziale, in quanto garantirebbe una forza lavoro più produttiva, una maggiore mobilità sociale ed una popolazione più consapevole e matura. Una crescita del livello di istruzione probabilmente favorirebbe anche una maggiore domanda di laureati da parte delle imprese: alcuni studi mostrano infatti che gli imprenditori con una formazione universitaria sviluppano più attività high-tech e tendono a ingrandire le loro aziende.
Da un lato, la maggior parte degli imprenditori italiani è concorde nell’attribuire al sistema formativo italiano la causa primaria di questa situazione soprattutto per quanto riguarda i profili dei giovani laureati, a cui l’università non darebbe le skill necessarie per soddisfare le attuali esigenze delle imprese. Dall’altro lato, tuttavia, secondo i dati raccolti dalle analisi del Cedefop (Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale), il mondo delle imprese e la pubblica amministrazione non sono stati capaci di assorbire completamente lo scarso numero dei laureati che il sistema formativo ha prodotto, ma non sono stati neanche capaci, una volta assunti, a sfruttarne appieno le competenze.
Pertanto, al fine di rendere proficui gli investimenti in capitale umano, così da ottenere anche di conseguenza esternalità positive per l’intera società, si rivela necessaria una maggiore cooperazione di tutti i principali attori del “sistema – Paese”, siano questi enti pubblici o privati, accademie o imprese.
1 Le stime internazionali presentate sono frutto di un Progetto di ricerca denominato OECD human capital project (2009-2012) realizzato da un consorzio di paesi di 16 paesi (Australia, Canada, Danimarca, Francia, Israele, Italia, Giappone, Corea, Messico, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Spagna, Regno Unito, USA, Russia and Romania, insieme a Eurostat e l'ILO. Le stime sono realizzate secondo il lifetime income approach (Jorgenson and Fraumeni, 1989; 1992) che è un income-based approach.
Esse permettono di misurare il valore dello stock di capitale umano degli individui come valore totale attuale scontato dei redditi futuri da lavoro che possono essere generati nell'arco della vita degli individui. Le stime considerano solo il benessere personale generato attraverso attività market della popolazione 15-64 anni. Le misure presentate si riferiscono alle risorse umane usate in un paese un determinato anno (piuttosto che a quelle disponibili) e sono basate sui redditi dei lavoratori classificati per titolo di studio. Esse possono sintetizzare gli effetti di differenti fattori che impattano sui redditi, oltre che dell'istruzione.
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