Il Rapporto Bes si propone di misurare il benessere equo e sostenibile in Italia, con lo scopo principale di creare uno strumento alternativo al PIL

Giunto ormai alla sua quarta edizione, il Rapporto Bes (Benessere Equo e Sostenibile) offre un quadro integrato dei principali fenomeni economici, sociali e ambientali che hanno caratterizzato l’evoluzione recente del nostro Paese attraverso l’analisi di un ampio set di indicatori, suddivisi in 12 domini (salute, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione tempi di vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi).
Il Rapporto fa parte di un progetto più ampio, nato da un’iniziativa congiunta del Cnel e dell’Istat, che si propone di misurare il benessere equo e sostenibile in Italia. Altri indicatori sono stati sviluppati in ambito OCSE, dal Legatum Institute e anche dal Bhutan, con lo scopo principale di creare uno strumento alternativo al PIL, Ciò che si sostiene è che il Prodotto Interno Lordo non sia più in grado di descrivere un quadro socio-economico sempre più complesso come quello attuale. L’adozione di strumenti come il BES – in grado di integrare le stime degli altri indicatori – può rappresentare un passo importante per la comprensione della situazione reale del nostro o di altri Paesi e, di conseguenza, per la realizzazione di politiche attive più efficaci.

I principali risultati
L’analisi dell’andamento dei 12 domini nel corso degli anni consente una prima lettura sintetica. In particolare, sono stati considerati tre diversi periodi temporali: il 2010, il 2013 e l’ultimo anno disponibile che comprende valori degli indicatori riferiti al 2015 o 2016. In questo intervallo di tempo, l’economia italiana ha attraversato una fase di prolungata recessione (fino al 2013), seguita da un anno di sostanziale stagnazione e dal successivo avvio della ripresa economica.
Tra il 2015 e il 2016 si evidenzia un miglioramento per i domini relativi a salute, ambiente, istruzione, occupazione, soddisfazione dei cittadini per la vita. Una sostanziale stabilità si rileva invece per qualità del lavoro, reddito, condizioni economiche minime e relazioni sociali. Complessivamente, i maggiori progressi si rilevano per la soddisfazione per la vita e per l’occupazione. I dati fanno quindi emergere una distinzione di fondo tra aspetti che hanno maggiormente sofferto il periodo di congiuntura negativa (come il lavoro, il benessere economico e le relazioni sociali), e aspetti (quali la salute, l’istruzione e l’ambiente) che hanno fatto registrare una tendenza di miglioramento e che non sono stati intaccati da questi ultimi anni di crisi.

Il lavoro e la conciliazione vita-lavoro
Per quanto riguarda il lavoro, dal 2015 abbiamo assistito ad una crescita occupazionale: il tasso di occupati, riferito ai 20-64enni, è tornato a superare la quota del 60% (+0,6 punti rispetto al 2014), pur mantenendosi ancora lontano dai livelli pre-crisi (era 62,8% nel 2008). Questi dati appaiono, però, meno positivi se si confrontano con quelli degli altri paesi dell’Unione Europea: in media nei paesi dell’Unione il tasso di occupazione è cresciuto di 8 decimi di punto per il secondo anno consecutivo, recuperando quasi del tutto i livelli del 2008 (Figura 1).
Come evidenziato dalla figura, le dinamiche occupazionali del nostro Paese mostrano significative differenze di genere: nel 2015 la differenza tra i livelli di occupazione femminile in Italia e quelli degli altri paesi europei arriva a toccare quasi 14 punti percentuali. La riduzione del tasso di occupazione nel periodo 2008-2015 è da attribuire, peraltro, essenzialmente alla componente maschile a fronte di una sostanziale stabilità di quella femminile. Inoltre, resta forte il divario territoriale tra Nord e Sud: anche se nel 2015 sembra esserci stato un aumento dell’occupazione leggermente più accentuato nel Mezzogiorno (+0,8 punti in un anno in confronto a +0,6 punti nel Nord e +0,5 nel Centro), la differenza con il Nord è di 23,4 punti percentuali (Figura 2).
Da segnalare che, per la prima volta dall’inizio della crisi, nel 2015 è diminuito il tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro (indicatore che individua la percentuale di persone disoccupate, cioè coloro che non lavorano pur essendo attivi nella ricerca di un’occupazione, e inattive, cioè coloro che non cercano attivamente lavoro), che si è attestato al 22,5% (-0,4 punti rispetto al 2014). Tuttavia, anche in questo caso, la tendenza alla riduzione è stata relativamente più contenuta rispetto alla media dell’Unione europea.


Il benessere economico
L’indicatore relativo al “Benessere economico” definito dal Rapporto prende in considerazione aspetti come: il reddito disponibile, le disuguaglianze di reddito, il rischio povertà, l’indice di povertà assoluta e altre variabili simili. I dati raccolti mostrano per l’Italia una situazione complessa e differenziata: se da un lato, infatti, il livello di reddito disponibile è ancora prossimo alla media europea e quello della ricchezza è decisamente superiore, dall’altro, la disuguaglianza reddituale e i livelli di povertà assoluta toccano il loro punto massimo da diversi anni a questa parte.
Nel 2015, ad esempio, il reddito lordo disponibile delle famiglie aumenta per il terzo anno consecutivo, con un incremento dello 0,9% rispetto all’anno precedente. Grazie anche a una dinamica inflazionistica particolarmente contenuta (l’indice generale dei prezzi al consumo aumenta solo dello 0,1% rispetto al 2014), il potere d’acquisto delle famiglie cresce per il secondo anno consecutivo (+0,9% rispetto al 2014). L’incremento del reddito disponibile alimenta inoltre un’espansione più marcata della spesa per consumi finali, che sale dell’1,5% (Figura 3).
Anche confrontando i dati del nostro Paese con quelli del contesto europeo, si può notare che il reddito lordo disponibile pro capite è praticamente uguale ai livelli medi dei paesi dell’Unione (in Italia è di 21.307 € PPA, mentre la media europea è di 21.653 € PPA - Figura 4).
Ciò che caratterizza negativamente l’Italia, però, è il grado di disuguaglianza tra i redditi: il rapporto tra il reddito posseduto dal 20% della popolazione con i redditi più alti e il 20% con i redditi più bassi, nel 2015 è pari a 5,8 in Italia, contro una media europea di 5,2 (Figura 5). Questa elevata disuguaglianza determina anche alti livelli di rischio di povertàpovertà. Quest’ultimo indicatore è una misura che definisce a rischio di povertà coloro che hanno un reddito equivalente inferiore o pari alla soglia di povertà, posta al 60% del reddito equivalente mediano calcolato sul totale delle persone residenti. Più elevato è il reddito mediano, maggiore è il valore della soglia; più elevata è la disuguaglianza tra i redditi inferiori alla mediana, maggiore è la quota di persone a rischio di povertà. L’Italia, con il 19,9% della popolazione a rischio di povertà, si colloca al di sopra della media europea per 2,6 punti percentuali (Figura 6)

La politica e le istituzioni
Un altro dominio degno di nota è quello relativo a “Politica e istituzioni”. Attraverso i dati raccolti si dipinge un Paese in cui vi è un’elevata sfiducia nei confronti di partiti politici, Parlamento, Consigli regionali, provinciali e comunali e nel Sistema giudiziario (le sole espressioni di fiducia da parte dei cittadini che superano la sufficienza rimangono quelle verso i Vigili del fuoco e le Forze dell’ordine). In particolare, in una scala da 0 a 10, nel 2016 la fiducia nel Parlamento è pari a 3,7 punti; quella nelle Amministrazioni locali è di 3,9; la fiducia nei partiti di 2,5 e quella nel sistema giudiziario di 4,3 (Figura 7). Considerando quanto espresso dal Rapporto, non sorprende il recente successo di movimenti populisti e antisistema.
Infine, da evidenziare come negli ultimi decenni sono stati compiuti notevoli progressi in termini di parità dei sessi nella vita pubblica. Gli indicatori che misurano la rappresentanza femminile negli organi legislativi ed esecutivi mostrano in tutta Europa un andamento positivo, con un aumento delle donne sia nei Parlamenti europeo e nazionale, sia nei Consigli regionali (Figura 8). L’Italia si trova (seppur di poco) al di sopra della media europea per numero di deputate al Parlamento europeo (37%) e in quello nazionale (31%): dal 2009 al 2016 il nostro Paese ha conosciuto un forte riduzione della disparità di genere almeno a livello di rappresentanza politica e istituzionale.

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