Lo spostamento della domanda dai beni di consumo tradizionali ai servizi e le variazioni delle abitudini alimentari nelle economie di cinque paesi europei confrontabili
Cambiano le abitudini di consumo, sull'onda di vere e proprie rivoluzioni degli stili di vita: ci occupiamo qui del trend della terziarizzazione dei consumi, ovvero di uno spostamento della domanda dai beni di consumo tradizionali ai servizi e del comparto alimentare nelle economie di cinque paesi europei confrontabili.
Dal 2005 al 2013, quindi a cavallo della crisi economico-finanziaria che ha scosso le nostre economie, ovunque tranne che in Germania la quota di PIL rappresentata dalle spese delle famiglie per l'acquisto di servizi è aumentata considerevolmente. Nel Regno Unito dello 1,6 per cento, in Spagna del 2 per cento, in Francia del 1,2 per cento, fino ad arrivare al caso dell'Italia, che è arrivata a contare il 4 per cento del PIL in più.
Come mostra la Figura 1, il livello della quota di spesa in servizi delle famiglie rispetto al totale è piuttosto dissimile nei cinque paesi considerati. Prima della crisi le famiglie italiane spendevano il 47 per cento del loro reddito per i servizi, contro il 51 per cento circa di Francia e Germania, il 54,4 per cento del Regno Unito, e il 56,6 per cento della Spagna. Il processo di terziarizzazione dei consumi pare essere partito in ritardo in Italia, e avere ricevuto una forte spinta in avanti negli anni della crisi. Come si vede nella figura, infatti, la quota di spesa delle famiglie destinata all'acquisto di servizi è passata dal 47,2 al 56,6 per cento, superando quella della Germania, che è rimasta pressoché stabile negli ultimi dieci anni.
La Figura 2, viceversa, prende in considerazione, per ciascun paese, il consumo (tra gli altri) di prodotti alimentari e bevande nel 2005, prima della crisi e confronta questo dato con quello registrato nel 2013.
La prima cosa che salta all'occhio è che in Italia le famiglie destinano una quota superiore di spesa rispetto agli altri paesi all'acquisto di prodotti alimentari e bevande, pari al 19 per cento della spesa totale. Ben due punti percentuali più della Spagna, seconda in questa classifica, e sei punti percentuali in più rispetto al Regno Unito. Tra il 2005 e il 2013 la flessione dei consumi nel comparto alimentare è stata contenuta in tutti i paesi tranne il Regno Unito, dove il consumo di cibo è aumentato più di quanto sia diminuito quello di bevande alcoliche.
Non è un mistero che nelle economie avanzate la quota di spesa delle famiglie dedicata a cibo e bevande sia diminuita all'aumentare del reddito. Nel caso dell'Italia, ad esempio, se nel 1973 una famiglia media spendeva l'equivalente di 47 euro in generi alimentari, pari al 36 per cento del proprio reddito, nel 2013 la spesa in generi alimentari, seppur maggiore in valore assoluto (pari a circa 461 euro), rappresentava solo più il 19,5 per cento del reddito famigliare. Valore tra l'altro di poco superiore a quello registrato negli anni immediatamente precedenti la crisi: tra il 2005 e il 2007, infatti, le famiglie destinavano a prodotti alimentari e bevande circa il 19 per cento del reddito.
Nel corso degli anni i consumi alimentari si sono modificati non solo in termini di quota del reddito che le famiglie destinano loro, ma anche in termini di composizione. La variazione più significativa si osserva sul lungo periodo, considerando gli ultimi decenni.
La Figura 3 evidenzia come dagli anni Settanta a oggi siano diminuiti significativamente i consumi di carne, di olii e grassi, e in minore misura quelli di bevande e di latticini e loro derivati. A prendere il posto di questi prodotti sono stati per lo più patate, frutta e ortaggi, il pesce, il pane e i cereali. Come si può vedere in una scheda precedente, il pesce in particolare è sempre più presente nella dieta delle famiglie di tutto il mondo. Sta sostituendo in parte la carne, sia per questioni di prezzo che per le sue proprietà nutrizionali molto apprezzate. Ci si sposta quindi verso diete più leggere e prodotti più salutari.
Fenomeni in crescita come lo slow food o il chilometro zero, che favoriscono l'incontro del consumatore con produttori e prodotti di aziende locali, sono lo specchio di un rinnovato interesse e attenzione alla filiera e alla provenienza dei prodotti che portiamo sulle nostre tavole. La percezione che i cibi che compriamo possano essere stati prodotti in paesi lontani, con standard qualitativi inferiori a quelli ai quali siamo abituati, stanno rendendo i consumatori più attenti e consapevoli rispetto a ciò che vogliono mangiare.
A questo fattore culturale, si aggiunge l'attenzione alla dieta. I consumatori richiedono più informazioni sui valori nutrizionali e sugli ingredienti utilizzati, e, almeno in parte, sono disposti a pagare di più per avere prodotti di qualità e provenienza garantite.
La tendenza è in atto in tutto il mondo, non solo in Italia. Secondo uno studio della Nielsen (We are What we eat. Healthy Eating Trends Around The World, 2015), i consumatori si indirizzano sempre più su prodotti sani per perdere peso (Figura 4) e per avere uno stile di vita migliore, cercano cibi freschi, naturali, e che siano il meno lavorati possibile. Si diminuisce il consumo di grassi e zuccheri, a favore di alimenti leggeri, o ricchi di proteine e fibre, alla ricerca di una dieta bilanciata (Figura 5).
Temi, questi, affrontati a Expo 2015, a dimostrazione del grande interesse che la società nel suo complesso, dai consumatori, alle imprese, ai governi, ha nei confronti dell'alimentazione a livello globale. Se l'esperienza dell'Esposizione Universale sia servita a sensibilizzare l'opinione pubblica sulla necessità di garantire a tutti un'alimentazione sana, sostenibile, ed equa, è una domanda che sarebbe interessante porre a chi in varie vesti vi ha partecipato.
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