Seppur in qualche misura biologicamente protette dalla letalità del virus, le donne risultano di fatto molto esposte alle conseguenze della pandemia

Il Rapporto ISS (Istituto Superiore di Sanità) - Istat relativo all'impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente, pubblicato nel maggio 2020, mostra che le donne presentano un tasso di letalità più basso degli uomini, pur di fronte a una percentuale leggermente superiore di casi di contegio accertati.
Considerando i dati del Bollettino del 18 maggio, infatti, (Figura 1, Figura 2 e Figura 3) risultano deceduti per Covid-19 in Italia 17.877 uomini e 11.815 donne.
Il tasso di letalità maschile è pari a 17,4 per cento, mentre l’equivalente femminile è pari a 9,9 per cento. Allo stato attuale delle conoscenze sul virus, i motivi di queste differenze sono stati sostanzialmente ascritti a componenti biologiche e comportamentali. Così, risulterebbero protettivi per il genere femminile una serie di elementi già noti, come le differenze funzionali del sistema immunitario, il diverso equilibrio ormonale, la differente incidenza tra fumo e co-morbidità, oltre all’atteggiamento mediamente più attento nei confronti della prevenzione sanitaria.

E’ però interessante osservare anche i profili occupazionali. Considerando i dati Covid-19 oltre che per genere anche per fasce di età (Figura 4), risulta che, tra i 20 e i 49 anni, sono le donne ad essere presenti in maggiore percentuale fra i contagiati:  ad esempio, nella fascia 20-29 anni esse si attestano al 56,7 per cento. In questa fascia d’età di mezzo si osserva altresì che il tasso di occupazione femminile è massimo (mentre è minimo i oltre i 55 anni) e, anche su questa base, Graziella Bertocchi, Professore di Economia Politica all’Università di Modena e Reggio Emilia, ipotizza che la chiave interpretativa del divario tra generi rispetto al virus sia quindi da ricercarsi altrove e precisamente, nel profilo occupazionale. Le donne si ammalerebbero infatti meno quando non lavorano o lavorano meno, perché stando a casa ci si espone meno al contagio, mentre, per esempio, la forte presenza femminile nel personale sanitario, soprattutto infermieristico, ha sicuramente un’incidenza significativa nelle statistiche sui contagi in questo difficile momento.

La correlazione femminile tra tasso di occupazione e mortalità da Covid 19 porta allora ad esaminare la distribuzione dei lavoratori per genere e per età nei settori oggetto di lockdown (dal momento che, nell’elaborare le strategie di contrasto al Covid-19, oltre a promuovere la ripresa economica, è anche centrale assicurare la sicurezza della cittadinanza e ciò può avvenire graduando la ripresa lavorativa in funzione del diverso rischio di contagio dei lavoratori dei diversi settori. Sul tema, Alessandra Casarico, Professoressa di Scienza delle finanze all’Università Bocconi, e Salvatore Lattanzio, dottorando di ricerca all’Università di Cambridge, utilizzando i dati di un campione delle comunicazioni obbligatorie fornite dal Ministero del Lavoro che riportano i codici Ateco (Figura 5, Figura 6 e Figura 7) mostrano che nelle attività non essenziali (nella ristorazione e nei servizi di alloggio e turismo ad esempio) prevalgono i più giovani e in numerose attività essenziali, come il lavoro domestico e sanitario,  sono molto presenti le donne (la distribuzione congiunta per genere e per età nei gruppi di attività lavorative, infatti, mostra che due terzi delle donne sono coinvolte in attività definite essenziali).
Dall’insieme di questi dati, è possibile concludere che, seppur in qualche misura biologicamente protette dal contagio e dalla letalità del virus, le donne risultano di fatto molto esposte alle conseguenze complessive della pandemia, che comprendono non solo la continuazione ma anche un aggravio delle disuguaglianze pre-esistenti alla stessa.

Infatti, se è proprio il genere femminile ad essere maggiormente occupato negli ambiti posti sotto pressione in questi mesi di emergenza, lo è pure nei segmenti in cui prevalgono forme di lavoro precario, tutti notoriamente female intensive (fino all’83,9 per cento secondo l’ultimo Global Gender Gap Report). Inoltre, lo spostamento verso formule di home working comporta, nel caso delle donne, una sovrapposizione anche fisica dei compiti produttivi e di cura della famiglia, con conseguenti aggravi nella gestione operativa delle attività quotidiane e peggioramenti nello squilibrio domestico. A riguardo, si consideri che i dati Istat sui tempi della vita quotidiana portano a stimare che la parità di genere nei tempi di lavoro familiare sarà raggiunta solamente fra oltre 60 anni, al perdurare del ritmo attuale di cambiamento (nell’ultimo decennio gli uomini in coppia hanno aumentato annualmente di un minuto e mezzo il loro impegno giornaliero nel lavoro familiare, quando invece le donne lo hanno ridotto di poco più di due minuti).

In più, come conseguenza della pandemia, le restrizioni circa la libertà di movimento di questi mesi (marzo-aprile 2020) e l’incertezza futura portano ad un inasprimento dei comportamenti disfunzionali personali e rischiano di peggiorare il numero dei casi totali di violenza domestica (secondo i dati EURES 2019, ricordiamo che l’85 per cento dei femminicidi avviene fra le mura di casa). L’attuale isolamento obbligato sta acuendo le difficoltà di accesso ai centri antiviolenza e di avvio di percorsi di contrasto alla violenza sessista nelle relazioni, tanto da comportare una diminuzione dei nuovi accessi pari all’80 per cento secondo i dati fino ad oggi rilevati dalla rete di centri antiviolenza DiRE (Donne in Rete).
Altro aspetto da considerare, tra le conseguenze di genere della pandemia, è la situazione delle migranti, perché la condizione di donna immigrata può essere peggiorativa in relazione alle situazioni descritte. Tra gli stranieri che vivono in Italia, secondo il Dossier Statistico Immigrazione 2019 sono le donne ad essere maggiormente presenti (52% del totale) e, con 2.672.000 unità, rappresentano l’8,6% della popolazione femminile italiana complessiva. I principali motivi che spingono le donne straniere a migrare risultano sostanzialmente i ricongiungimenti familiari e la ricerca del lavoro, in risposta ai crescenti fabbisogni di lavoro di cura, infermieristici e domestici (appunto i settori maggiormente a rischio di contagio come si è detto), nel soddisfacimento dei quali gli immigrati rappresentano il 70,6% del totale secondo il Rapporto Italiani nel Mondo 2019.
Complessivamente quindi anche un evento teoricamente ‘orizzontale’ come l’attuale pandemia, in realtà non colpisce tutti allo stesso modo, ma piuttosto mette in risalto molti vulnus preesistenti della società, come le varie forme di segregazione occupazionale femminile (ovvero la distribuzione non uniforme delle occupazioni che esita in una diversa concentrazione in determinate professioni o settori di attività) su cui si auspica sarà possibile presto ragionare e porvi soluzione.

Ad emergenza conclusa certamente si renderà necessario un grande lavoro di ricostruzione e l’auspicio è che coincida anche con un nuovo inizio, in cui sarà colta l’opportunità di intervenire fattivamente per realizzare la parità di genere, ricordando -tra le tante riflessioni in merito-  le conclusioni del Rapporto World Economic Forum 2017 sul Gender Gap, secondo i quali la competitività economica può essere accresciuta conseguendo un migliore equilibrio tra generi nei posti di responsabilità e solo le economie che riusciranno a impiegare tutti i loro talenti riusciranno poi a prosperare.
Eppure, secondo i dati dell’indagine Istat ”Stereotipi sui ruoli di genere” (in cui, ad un campione di intervistati tra i 18-74 anni, è stata sottoposta una serie di stereotipi per valutarne il grado di adesione) risulta ad esempio che il 16,1 per cento degli intervistati è molto d’accordo con l’affermazione secondo cui “in condizioni di scarsità di lavoro i datori dovrebbero dare la precedenza agli uomini rispetto alle donne”; il 32,5 con l’affermazione “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” e il 27,9 per cento con l’affermazione “è soprattutto l’uomo che deve provvedere alle necessità economiche della famiglia”. Da ciò si conclude che il 58,8 per cento della popolazione tra i 18 e 74 anni si ritrova in questi pregiudizi, più diffusi al crescere dell’età (65,7 per cento tra gli anziani e 45,3 per cento tra i giovani), tra i meno istruiti (79,6 per cento tra chi ha conseguito la licenza elementare e il 45 per cento dei laureati) e al Sud (67,8 per cento nel Mezzogiorno e 52,6 per cento al Nord-est). Ciò nonostante, nella ricostruzione post-emergenza sanitaria, si apriranno molti spazi di ricontrattazione che potrebbero aprire ad una revisione di molti schemi e pre-concetti ormai desueti, non sostenuti dall’evidenza e di fatto solamente bloccanti.