L’area dei Balcani sta vivendo una inedita crisi demografica, che porterà nell’immediato futuro ad uno spopolamento con conseguenze gravissime
Il 4 giugno 2020 è il centesimo anniversario del Trattato di Trianon (Versailles, 1920), a seguito del quale l’allora Regno d’Ungheria, facente parte dello sconfitto Impero Austro-ungarico, perdeva metà del suo territorio e della rispettiva popolazione a favore degli stati confinanti, che oggi sono la Serbia, la Croazia, la Slovenia, la Slovacchia, la Romania e la Repubblica ceca. Quasi tre milioni di ungheresi si ritrovarono come minoranza in Stati stranieri, con tutte le difficoltà che ci si può immaginare. Ora, esattamente dopo un secolo, Viktor Orbán ha saputo efficacemente sfruttare il tema delle minoranze oltreconfine e della grandeur perduta della Grande Ungheria, esacerbando ostilità interetniche più o meno sopite negli anni. Il motivo non è solamente politico, perché come vedremo di seguito, una grave crisi attanaglia tutta la regione balcanica.
L’area dei Balcani, difatti, in questo periodo storico sta vivendo una inedita crisi demografica, che porterà nell’immediato futuro ad uno spopolamento con conseguenze gravissime sugli assetti politici, economici e sociali della regione.
Questa zona geografica, infatti, vive al contempo quattro macro-fenomeni demografici:
- un drastico calo della fertilità, con l’emancipazione femminile e la tipica transizione demografica di paesi moderatamente in crescita;
- L’invecchiamento della società, grazie a progressivi miglioramenti nella sanità: nei paesi balcanici si vive molto più a lungo rispetto ad altri paesi comparabili a livello di reddito;
- Una forte emigrazione, che continua ad essere presente anche se non massiccia come quella degli anni ’90, ma che continua ad avere come protagonisti specialmente i giovani, che dunque vanno ad intaccare ancora di più la piramide delle età;
- Le migrazioni di rifugiati dalla rotta balcanica, che tuttavia sono in stragrande maggioranza soltanto di passaggio, diretti verso l’Europa occidentale.
Proprio il paradosso della sovrapposizione fra la transizione demografica e il costante flusso in uscita di giovani è una caratteristica singolare dell’area balcanica, che rischia di essere una vera e propria bomba a orologeria per questi paesi - specialmente di fronte a paradigmi famigliari che cambiano, tradizioni che evolvono e nuove necessità di accudimento dei bambini e degli anziani da parte di istituzioni capaci di prendersene la responsabilità. Oggi questi paesi vivono le tragedie dei paesi ricchi e poveri al contempo: un fenomeno assolutamente inedito.
Le migrazioni in entrata sono quasi inesistenti. Non c’è dunque quell’effetto compensazione che i paesi occidentali hanno potuto vedere grazie agli alti tassi di fertilità delle donne immigrate e grazie alla giovane età dei migranti stessi.
Dalla Figura 1, poi, è evidente il punto di flesso in corrispondenza con la caduta dei regimi comunisti, che ha spinto moltissimi ad emigrare. Coloro che emigravano erano soprattutto giovani in età fertile, che andavano a costruire le loro famiglie altrove. Ma in questo quadro va ancora ad inserirsi l’adesione all’area Schengen, così come quella di alcuni paesi all’Unione Europea (la Croazia), come ulteriore fattore di spinta all’emigrazione anche al giorno d’oggi.
Nella Figura 2 è possibile vedere il dato sulle migrazioni nette (migrazioni in entrata meno le migrazioni in uscita) come riportato dalla Banca Mondiale. Emerge chiaramente come negli ultimi anni i flussi netti siano o pari a zero, o in negativo, specialmente per Albania, Grecia e Bosnia e Herzegovina e, più di tutti, Romania. Gli unici in positivo sono l’Ungheria, la Serbia e la Slovenia.
Per quanto riguarda l’invecchiamento della società, già nel 2012, guardando ai dati della World Health Organization, si poteva vedere come l’età media in questi paesi era considerevolmente alta, preso conto del reddito: in Bulgaria addirittura 42,84, simile alla Croazia, in Slovenia 41,6, l’Ungheria a 40,1, la Romania 39,4, la Bosnia e Herzegovina a 39,2 e anche la Serbia si attestava già a 38. Per avere un termine di paragone, in Europa l’età media era 38,6. Insomma l’area balcanica, che è la zona a reddito più basso del continente, era già in linea per quanto riguarda l’età. Lo stesso dicasi per l’aspettativa di vita, costantemente in crescita come si può vedere nella Figura 3 dai dati della Banca Mondiale.
Secondo le attuali proiezioni delle Nazioni Unite, entro il 2050 in Serbia la popolazione sarà dimezzata rispetto ad oggi; così anche la Moldavia, la Croazia e l’Albania. Gli altri paesi balcanici sono comunque tutti previsti in forte declino - alcuni, come visto nel primo grafico, lo sono già. Nella Figura 4 è possibile osservare questo preoccupante trend. Sono numeri impressionanti, che rischiano di cogliere questi paesi impreparati
Se il declino demografico in Europa occidentale è stato molto più graduale, nei Balcani rischia di essere una vera doccia fredda, proprio a causa della combinazione dei diversi macro-fenomeni citati. La situazione chiamerà politiche responsabili, impopolari, e chiederà sacrifici a paesi già complessi dal punto di vista politico. Certo sarebbe fondamentale la capacità di questi paesi di richiamare la diaspora, attrarre nuovi migranti mantenendo una coesione sociale, gestire il sistema pensionistico in modo responsabile, e promuovere una crescita sostenibile. Per intanto, tuttavia, la attuale situazione di pandemia da Covid-19 rischia di trasformarsi in un’arma a vantaggio dei leader con deriva autocratica che, per il bene della salute pubblica, riducono le libertà dei cittadini: un esempio nei Paesi del cosiddetto blocco di Visegrad, di cui ben tre appartengono alla regione balcanica: Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia (il quarto è la Polonia)
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