In attesa del vertice biennale di Varsavia dell'8 e 9 luglio, il blocco militare dei Paesi euro-atlantici pare risorto a nuova vita grazie a una sorta di riedizione della Guerra Fredda

Nell'ultimo ventennio la NATO (North Atlantic Treaty Organization) è stata la grande vittima della fine della Guerra Fredda, a lungo irrisa da definizioni caustiche come "un'organizzazione con un grande futuro alle spalle" o "un'alleanza militare in cerca di un nemico". Oppure, ancora, "specialista in sicurezza, pensionato anzitempo ma ancora vigoroso, offresi per qualunque mansione". Il paradosso era che, proprio in seguito alla vittoria nella Guerra Fredda - riportata senza spargimento di sangue per il solo fatto di esistere e resistere, come si auguravano i suoi padri fondatori - che rappresentava il suo obiettivo statutario, l'Alleanza risultava priva di un compito specifico, a causa della sparizione del vecchio grande nemico, l'Unione sovietica e della sua alleanza militare, il Patto di Varsavia. Dopo aver tentato di fare di tutto (assumendo di volta in volta ruoli anti-terrorismo, anti-pirateria, anti-narcotraffici, anti-tratta di migranti e facendosi coinvolgere in conflitti un tempo estranei al suo originario scacchiere geografico di pertinenza, come in Afghanistan, Iraq, Corno d'Africa e Libia), la NATO sembra infine aver ritrovato un ruolo di rilievo ritornando al passato.

Fianco Est ...
Come dovrebbe sancire il vertice biennale, che quest'anno si terrà a Varsavia l'8 e 9 luglio, il blocco militare dei Paesi euro-atlantici pare infatti risorto a nuova vita grazie a una sorta di riedizione della Guerra Fredda, che ha nuovamente raffreddato i rapporti tra Russia e Occidente (Figura 1). Nell'ultimo decennio si è via via rafforzato un contenzioso globale dai toni sempre più accesi con il Cremlino (Figura 2 e Figura 3), accusato, specie dagli Stati Uniti e dai Paesi dell'Europa centro-orientale staccatisi da Mosca ed entrati nella NATO, di riarmarsi con programmi sproporzionati al clima di distensione diffusosi in Europa fino al 2008.
Ma soprattutto di aver cercato di frenare il processo di progressivo allargamento dell'Alleanza verso Est (l'ultima adesione, passata pressoché inosservata in Occidente per il modesto peso specifico del Paese, ma che ha molto irritato la Russia, che ritiene i Balcani una regione "sensibile" per i suoi interessi, è quella del Montenegro, ratificata il 19 maggio 2016), sia scatenando una sorta di guerra civile strisciante nelle province (oblast) orientali dell'Ucraina, abitate da popolazioni russofone, sia fomentando la secessione da Kiev della strategica penisola di Crimea, anch'essa per il 60% russofona, tornata sotto controllo di Mosca nella primavera 2014 con un plebiscito non riconosciuto a livello internazionale.


Il giudizio russo sulla situazione strategica europea, com'è prevedibile, è diametralmente opposto. In Ucraina, nel febbraio 2014, a rovesciare il governo (peraltro democraticamente eletto, come riconosciuto dall'Occidente stesso) di Viktor Yanukovych, non è stato un movimento di protesta civile di piazza, ma un vero e proprio colpo di Stato fomentato e finanziato da Washington. Gli oblast orientali filo-russi avevano quindi tutto il diritto di ribellarsi a un potere centrale che voleva forzarne la volontà di autodeterminazione per riunificarsi alla "madre patria russa" (com'è avvenuto in Crimea). E la responsabilità della guerra civile strisciante - che tuttora continua, mietendo in questi oltre due anni quasi 10mila vittime - ricade sul governo centrale di Kiev, che rifiuta di applicare per primo i cosiddetti "accordi di Minsk-2", firmati a febbraio 2015 nella capitale bielorussa tra le parti in causa, che dovrebbero portare a una progressiva soluzione della crisi attraverso la creazione di uno stato federale decentrato e un'ampia autonomia garantita ai distretti filo-russi, in cui però dovrebbe finire la secessione ridando unità allo stato sotto il governo di Kiev.
Quanto all'ostilità al progressivo allargamento dell'Alleanza verso Est, il Cremlino invoca gli accordi verbali intercorsi nel 1990 tra i presidenti George Bush sr. e Michail Gorbaciov, in base ai quali l'ingresso della Germania unificata nella NATO sarebbe stato compensato dalla non adesione degli altri ex membri del Patto di Varsavia, accordi poi reinterpretati - con un primo, grande disappunto di Mosca - con la non accettazione dei Paesi ex membri dell'Urss (Baltici, Georgia e Ucraina). Anch'essa tuttavia puntualmente disattesa. Ricostruzione confermata ancora poche settimane fa sulle pagine del Los Angeles Times dal politologo statunitense Joshua R. Itzkowitz Shifrinson, che alimenta i timori del Cremlino circa la volontà (soprattutto americana) di sostenere un "roll back" verso la Russia per ridimensionarla definitivamente, soggiogandola sotto l'aspetto strategico ed economico.
Mosca ricorda poi come le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti (e accolte mal volentieri dall'Europa, soprattutto da Germania, Italia e Francia, i Paesi economicamente più danneggiati dalle mancate esportazioni ma anche dalle "contro-sanzioni" adottate dalla Russia) siano insensate ma anche inique, perche hanno colpito quasi soltanto l'Europa, con un danno nel biennio stimato in 40/50 miliardi di euro, (di cui circa 5,5 miliardi di euro per i soli prodotti agricoli), contro poco più di un miliardo di dollari per gli Usa. Mentre Mosca ha parlato per sé (probabilmente con un po' di esagerazione) di mancati introiti per un totale di 25 miliardi di dollari.

A questi contenziosi, già ampiamente sufficienti ad avvelenare sempre più il clima nel Vecchio Continente, si aggiunge la netta opposizione di Mosca alla decisione della NATO (di nuovo, in verità, assai più americana che europea, poiché l'annuncio della decisione lo diede direttamente, un po' come un fulmine a ciel sereno, l'allora presidente George Bush nel 2007) di realizzare una rete di missili anti-missile (Figura 4), ufficialmente destinati a difendere l'Europa da ogni possibile minaccia proveniente dal Medio Oriente (sostanzialmente l'Iran), ma anche da molto più lontano (Corea del Nord). La prima base operativa è stata solennemente inaugurata il 12 maggio scorso a Deveselu (Romania) alla presenza del segretario della NATO Jens Stoltenberg, un'altra è in costruzione a Redzikowo (Polonia) e sarà pronta entro il 2018 (Figura 5). Mosca sostiene infatti che si tratta di una minaccia strategica addizionale portata agli attuali equilibri strategici globali, poiché potrebbe compromettere la sua capacità di ritorsione ("secondo colpo") contro un eventuale attacco nucleare americano, nonché di una violazione del trattato Inf (Forze nucleari intermedie) che proibisce a Russia e Stati Uniti di detenere missili nucleari a raggio intermedio (con portata tra 500 e 5.500 km).
Le tesi russe non appaiono del tutto credibili: è difficile pensare che alcune decine di missili di difesa possano neutralizzare un arsenale nucleare dotato di migliaia di vettori e testate. Tuttavia, non risulta molto convincente neppure l'argomentazione americana, secondo cui i nuovi sistemi d'arma servono solo a difendere gli Stati Uniti (cioè le loro basi militari nel Vecchio continente) e gli alleati europei dai missili iraniani e nord-coreani. L'Iran risulta infatti impegnato in una fase di grande apertura all'Occidente, dopo l'accordo raggiunto a luglio 2015 sul controllo delle sue attività nucleari civili, e non sembra aver né interesse né intenzione di minacciare l'Europa. E prima che la Corea del Nord sia davvero in grado di metterci nel mirino dei suoi vettori piuttosto rudimentali potrebbero passare 20 o 30 anni. A questi sviluppi è probabile che il Cremlino risponda muovendo verso Ovest altri sistemi missilistici "Iskander" (con 500 km di raggio e capacità sia nucleare sia convenzionale, in grado quindi di colpire tutta la Polonia, i Paesi baltici e buona parte della Svezia), alcuni dei quali già dislocati nell'enclave russa di Kaliningrad e in Bielorussia, accrescendo ulteriormente la sfiducia reciproca e la tensione in Europa (Figura 6).

Questa situazione, quindi, dice chiaramente quale sarà la reale agenda dei lavori a Varsavia: tutta l'attenzione concentrata a Est e uno sguardo poco meno che distratto al cosiddetto "fianco Sud", che interessa particolarmente all'Italia. Il dibattito interno alla NATO è infatti dominato dalle misure di rassicurazione verso i Paesi dell'Europa centro-orientale - tema già al centro del precedente vertice in Galles - in materia di deterrenza convenzionale e nucleare anti-russa. È in vista un rafforzamento delle misure contenute nel Readiness Action Plan del 2014, incluse frequenza e portata delle esercitazioni alleate sui confini orientali - l'ultima delle quali, denominata Anaconda 16, la più grande mai organizzata dall'Alleanza nei suoi 67 anni di vita, si è svolta circa un mese fa in Polonia e Lituania, con il coinvolgimento di 31mila uomini provenienti da 24 Paesi diversi (Italia compresa) - e il pre-posizionamento di equipaggiamenti militari in loco. Sembra profilarsi lo stazionamento di un battaglione multinazionale dell'Alleanza in ognuno dei Paesi confinanti con la Federazione russa, 500 uomini circa, a rotazione continua ma senza la creazione di vere e proprie basi militari, in modo da non infrangere apertamente l'Atto fondativo delle relazioni NATO-Russia del 1997 che, tra le varie disposizioni, impegna gli alleati a non stazionare in modo permanente significative capacità militari nei Paesi membri di nuova adesione.

... e fianco Sud
Se un compromesso ragionevole sembra quindi delinearsi per il fianco orientale, le idee appaiono ancora poco chiare per quello meridionale (Figura 7). L'obiettivo di "proiettare stabilità" è certamente logico e condivisibile, ma rimane da vedere cosa questo significhi concretamente per l'Alleanza. L'intento dichiarato è d'investire maggiormente nella cooperazione bilaterale con i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa per rafforzarne le forze armate e di sicurezza (il cosiddetto Defence Capacity Building, DCB), accrescendo la loro capacità di contrastare in loco quelle forze disgregatrici che alimentano crisi e conflittualità, di cui soprattutto l'Europa mediterranea paga il prezzo, in primis in termini di flussi migratori e terrorismo islamico. In cima alla lista dei partner da aiutare tramite il DCB figurano Giordania, Iraq e Tunisia: non a caso il re di Giordania sarà presente a Varsavia ai lavori del vertice. Ma anche la situazione di Egitto e Libia, che attraversano crisi gravissime sotto il profilo socio-economico e politico-militare, sarà oggetto di attenta analisi per valutare le forme di aiuto più adeguate.
Sulla sicurezza del bacino del Mediterraneo, dopo l'avvio nel febbraio scorso della missione NATO nell'Egeo, in collaborazione con la missione Frontex dell'Europa, sono allo studio passi ulteriori, anche su iniziativa italiana, quali la trasformazione dell'attuale missione NATO Active Endeavour, avviata dopo l'11 settembre 2001 con un mandato di contrasto al terrorismo, in una missione più ampia per la maritime security, possibilmente in sinergia con la missione Sophia (*) dell'Unione Europea e quelle nazionali dell'Italia. Aldilà di DCB e sicurezza marittima, non è però chiaro come sfruttare e potenziare i partenariati bilaterali e regionali della NATO per proiettare stabilità sul fianco sud, quale potrebbe essere nella regione euro-mediterranea la cooperazione con la Ue - tuttora ostaggio dei contenziosi storico-politici turco-greco-ciprioti ancora aperti - e, infine, quale contributo potrebbe dare l'Alleanza alla lotta contro lo stato islamico - in particolare, ma non solo - sul fronte dell'intelligence.

 

(*) La missione Sophia, ufficialmente denominata European Union Naval Force Mediterranean e conosciuta anche con l'acronimo EUNAVFOR Med, è un'operazione militare lanciata dall'Unione Europea dopo i ripetuti naufragi dell'aprile 2015 che hanno coinvolto diverse imbarcazioni che trasportavano migranti dalla Libia. Il suo obiettivo è di neutralizzare le rotte della tratta dei migranti nel Mediterraneo.