La vittoria di Moon Jae-in e il suo programma fortemente innovativo e pacifista hanno alimentato l’attesa di un radicale cambiamento in Corea del Sud

Il 9 maggio 2017 il leader del Partito Democratico Moon Jae-in ha vinto le elezioni presidenziali nella Corea del Sud con grande facilità, ottenendo il 41,8% dei voti, contro il 24% riportato dal candidato conservatore Hong Joon-pyo e il 21% dal centrista Ahn Cheol-soo (Figura 1). Il suo successo, ottenuto portando ai seggi il 77% dei 42 milioni dei coreani aventi diritto al voto, la quota più elevata dell’ultimo ventennio, con lo slogan People first (un voluto distacco dall’ormai notissimo motto trumpiano America first), costituisce una novità in grado di mutare a fondo i delicati equilibri che reggono la situazione coreana e, di conseguenza, l’intero Estremo Oriente. A patto, tuttavia, che Moon riesca a realizzare il suo programma elettorale fortemente innovativo.

Esso è caratterizzato da alcuni punti qualificanti: sul piano della politica estera, dà grande rilievo ai temi della coesistenza pacifica e, in prospettiva di lungo termine, della «unità nazionale che il nostro popolo desidera» (ma il cui costo, secondo una stima effettuata nel Duemila dalla Confindustria sud-coreana, supererebbe i 3.000 miliardi di dollari) e alla volontà d’instaurare migliori rapporti con il regime di Pyongyang («farò di tutto per riportare la pace nella penisola coreana»), ripristinando una sorta di Sunshine Policy. Questa, sviluppata tra il 1998 e il 2007 dai presidenti progressisti sud-coreani Kim Dae-jung (che nel 2000 ricevette il premio Nobel per la pace per averla ideata) e Roh Moo-hyun (di cui Moon Jae-in fu il capo di gabinetto), fu abbandonata nel 2010 come “inefficace” e “fallimentare”.
Uno degli strumenti principali della distensione verso Pyongyang dovrebbe essere la riapertura dell’enclave industriale di Kaesong, creata nel 2004 con fondi sudcoreani nel distretto del Nord più vicino al confine per «aumentare la conoscenza e la cooperazione reciproca» tra le due Coree, ma chiusa da Seul nella primavera del 2016 dopo una delle tante crisi politico-diplomatiche bilaterali. Vi ha operato un totale di 124 aziende del Sud (soprattutto la Hyundai, che ne fu uno dei maggiori promotori), le quali sono giunte a impiegare fino a 60mila addetti, di cui il 90% nord-coreani. I salari pagati erano pari a 100 milioni di dollari annui (valuta pregiata assai ambita da Pyongyang), contribuendo a generare un interscambio di due miliardi di dollari l’anno. Moon, durante la campagna elettorale, si è spinto a ipotizzare una Kaesong ingrandita ben otto volte rispetto a quella chiusa l’anno scorso.


La vittoria di Moon Jae-in e il suo programma fortemente innovativo e pacifista hanno alimentato l’attesa di un radicale cambiamento in un Paese che l’Occidente, Stati Uniti in testa, tuttora percepisce come una sorta di “alleato obbligato” di Washington, un client state, secondo la cruda definizione di Giancarlo Elia Valori, privo di fatto di un’autonoma capacità d’iniziativa anche a livello regionale e con una proiezione di potenza geo-politica nettamente inferiore al notevole peso produttivo raggiunto a livello globale. Una sorta di gigante economico e nano politico- come fu analogamente definita per decenni la Germania federale prima della sua unificazione - dato che la Corea del Sud figura ormai tra le prime 12 economie mondiali (Figura 2).
La parte forse più innovativa e audace del programma di Moon Jae-in risulta però quella rivolta al cambiamento radicale del modello di sviluppo fin qui perseguito dal Paese. Egli intende affrontarne in modo incisivo i problemi partendo da una profonda riforma politico-economica che spezzi i tradizionali, opachi legami che nel corso dell’ultimo mezzo secolo si sono stabiliti tra classe politica e le chaebol, i grandi gruppi industriali sudcoreani che dominano il sistema economico-produttivo.
Esse, secondo i dati forniti quest’anno da Stratfor, controllano il 77% dell’economia coreana, con Samsung (41%), Hyundai (13%), LG (9%) e SK Group (7%) in vetta alla classifica delle quote di Pil prodotto. Bloomberg, nel ricordare uno studio dell’Ocse del 2014 che condannava le distorsioni prodotte da questo modello di sviluppo, era giunta a definire la Corea del Sud come la Samsung’s Republic. Proprio in quell’anno le dieci più importanti imprese industriali avevano generato l’88% delle esportazioni totali del Paese.
Le chaebol sono anche all’origine della caduta della precedente presidentessa Park Geun-hye - figlia dell’autocrate Park Chung-hee, che guidò in forma autoritaria il Paese durante gli anni 60 e 70 del secolo scorso - destituita nell’autunno 2016 dalla carica e poi arrestata e incriminata in concomitanza alla denuncia per corruzione di Lee Jae-yong, vice presidente di Samsung Electronics ed erede della famiglia fondatrice del colossale gruppo omonimo, accusato di averle elargito 30 milioni di dollari per ottenere una legislazione favorevole al suo gruppo e ad altri conglomerati.

La volontà di riportare sotto l’impero della legge e rendere trasparenti le attività delle chaebol rappresenta un obiettivo molto ambizioso per un Paese che ha fondato il suo vertiginoso sviluppo proprio sull’accondiscendenza pressoché totale del mondo istituzionale verso le famiglie imprenditoriali dominanti e i loro interessi politico-economici: esse hanno accumulato un potere enorme grazie a una diffusa e intensa opera di corruzione, diventando pressoché intoccabili e condizionando di fatto la selezione della stessa classe dirigente sud-coreana. Almeno fino allo “scandalo Samsung”. Moon Jae-in punta, infatti, a eliminare una volta per tutte la collusione e la complicità di cui è intrisa la vita politica del Paese, chiarendo definitivamente a chi spetti il potere decisionale ultimo, quali siano le regole da rispettare e a chi competa formularle.
Un altro segnale di forte discontinuità rispetto al passato giunge dalla volontà dell’attuale presidente d’interrompere la costruzione di nuove centrali nucleari, a causa dei timori generati dall’incidente di Fukushima, avvenuto in Giappone nel marzo 2011, in un Paese che ha fatto del nucleare una delle scelte qualificanti del proprio sviluppo, Ma anche, con buona probabilità, per indicare concretamente a Pyongyang un modello di sviluppo alternativo, in cui l’atomo, tanto civile quanto militare, è destituito d’importanza. Un invito, in sostanza, a considerare l’ipotesi di una denuclearizzazione dell’intera penisola come una tappa obbligata della sua riunificazione.
Si tratta di una decisione di grande rilievo per le sue implicazioni tanto economiche quanto politico-diplomatiche. Sul primo fronte la Corea del Sud, che vanta attualmente un parco di 25 centrali atomiche, per una potenza installata di 23 Gigawatt, con altri tre impianti in costruzione e 8 in progettazione, si può infatti considerare tra i principali Paesi al mondo, dopo Stati Uniti, Francia, Russia, Giappone e forse al pari della stessa Cina, quanto a padronanza della tecnologia nucleare.
Era sua dichiarata ambizione accaparrarsi una fetta cospicua (fino al 20% del totale) delle future commesse mondiali del settore, stimate dallo US Department of Commerce in 740 miliardi di dollari nel prossimo decennio, grazie a uno dei più sicuri reattori mondiali di ultima generazione, l’APR-1400 (Figura 3), interamente progettato e sviluppato nel Paese. Nel 2009 la Kepco, l’azienda nazionale leader del settore che ha goduto finora del decisivo appoggio del Governo, si è aggiudicata la costruzione di quattro centrali atomiche negli Emirati Arabi Uniti, le prime a essere realizzate in Medio Oriente, battendo la concorrenza francese (Areva), giapponese (Hitachi) e americana (General Electric) per un valore di 20,4 miliardi di dollari, e sta negoziando l’esportazione di altre sei centrali con Turchia, Giordania, Egitto per un importo analogo.
Dal punto di vista politico-diplomatico la moratoria sullo sviluppo del settore nucleare, se realmente adottata, tornerebbe invece a rendere la Corea del Sud dipendente dalle forniture e dal know-how degli Stati Uniti e/o del Giappone per la vita residua del parco delle centrali esistenti.

Questa “rivoluzione copernicana” politico-produttiva giunge tuttavia in un momento relativamente poco brillante dell’economia sud-coreana. Il Fondo Monetario Internazionale prevede per il 2017 un tasso di crescita dell’economia del 2,7%: si tratterebbe del terzo anno consecutivo al di sotto della soglia del 3% (Figura 4), fatto del tutto inusuale per un Paese abituato a svilupparsi a ritmi del 5-6 per cento medio annuo. Inoltre, la situazione di elevato indebitamento delle famiglie non alimenta ottimismo sui consumi, mentre le crescenti diseguaglianze (con una fascia assai ristretta di ricchi sempre più facoltosi e una classe media che comincia a risentire, come nel resto dei Paesi avanzati, gli effetti di un generale impoverimento) e l’aumento della disoccupazione (4% all’inizio dell’anno, in un Paese esente da questo problema - Figura 5), specie tra i giovani sotto i 30 anni, il cui tasso è triplo rispetto alla media generale (Figura 6), hanno logorato il tessuto sociale.
Due delle promesse elettorali più impegnative formulate da Moon Jae-in (ma che hanno fatto sicura presa sui suoi elettori) sono state infatti la creazione di ben 1,5 milioni di nuovi posti di lavoro nel prossimo quinquennio, di cui oltre 800mila nel campo statale, e la limitazione per legge della settimana lavorativa a 52 ore. Il tutto inserito in un piano di stimoli extra-budget da 9,9 miliardi di dollari per rianimare la crescita economica, con una stima di un +0,2% aggiuntivo del Pil. Se a ciò si aggiungono il drastico calo dei matrimoni e, quindi, dell’incremento demografico (1,2% il tasso attuale, che porterà la popolazione a diminuire dopo il 2030), e una situazione ambientale sempre più degradata - il livello dell’inquinamento atmosferico nell’area metropolitana di Seul ha segnato un nuovo record negativo all’inizio del 2017, portando per la prima volta la capitale sudcoreana tra le città asiatiche con la più alta concentrazione giornaliera di polveri sottili, fenomeno destinato ad aggravarsi seriamente se sarà confermata l’uscita graduale dall’energia nucleare, ecco che Moon ha avuto buon gioco nell’attribuire al “modello chaebol“, giudicato ormai logoro e superato, gran parte delle colpe delle accennate difficoltà. Anche là ove l’attuale complessa situazione internazionale (in ulteriore, obiettivo aggravamento dopo l’arrivo alla presidenza americana del protezionista Donald Trump) determina responsabilità rilevanti e non certo imputabili ai grandi trust produttivi interni.

Sul piano politico-diplomatico l’inizio della presidenza Moon è stato indebolito dalla linea d’intransigenza diplomatico-militare scelta da Donald Trump per cercare di frenare i progressi missilistico-nucleari perseguiti da Pyongyang, culminata con l’invio di ben tre portaerei nel Mar del Giappone e accompagnata da minacce verbali insolite per una presidenza statunitense («La Nord Corea è in cerca di guai», «L’era della pazienza strategica è finita»), Moon Jae-in, con la sua opzione “pacifista”, non sembra destinato a intendersi con facilità con l’ “alleato” americano. Il rapporto con gli Usa rischia infatti d’incrinare anche la linea di fermezza e depotenziamento verso le chaebol, come si è visto durante la visita di Stato che ha effettuato a Washington a fine giugno. Moon è stato infatti costretto a difendere la posizione delle mega-aziende coreane, accusate di aver creato un forte passivo nella bilancia commerciale bilaterale (oltre 27,5 miliardi di dollari nel 2016), specie nei settori automobilistico e siderurgico. Pur respingendo la richiesta di rinegoziare l’accordo che regola gli scambi bilaterali (noto come Korus), Moon, per cercare d’ingraziarsi il presidente americano, ha annunciato un aumento degli investimenti sud-coreani negli Usa per 12 miliardi di dollari nel prossimo quinquennio. La Kia Motors (controllata dalla Hyundai) concorrerà da sola con 3,1miliardi.
Moon, inoltre, ha dovuto fare i conti con una malcelata ostilità alla propria politica di dialogo con Kim Jong-un, contro il quale Trump ha scelto da tempo una contrapposizione totale. La posizione del presidente sud-coreano verso Pyongyang, mutuata dalla citata Sunshine policy, si articola infatti su tre punti: il Sud non intende in alcun modo assorbire il Nord (malgrado la convinta retorica della riunificazione), anche per gli accennati costi esorbitanti; mira a realizzare con i “fratelli-rivali” un’attiva cooperazione che crei le basi di una “coesistenza pacifica”; tuttavia reagirà con fermezza a ogni provocazione militare compiuta dal Nord. Se sul primo punto la nuova amministrazione Usa non ha nulla da eccepire, il secondo è in evidente contraddizione con la linea “dura” adottata da Trump, che punta a ulteriori sanzioni economiche (alle quali, con evidente contraddizione, Moon non si dice contrario), e non esclude esplicitamente alcuna opzione, compresa quella militare (almeno in forma selettiva). Mentre il terzo, che suona alquanto stridente se formulato da una presidenza che si proclama “pacifista”, necessariamente si deve basare sul pieno sostegno del deterrente militar-diplomatico statunitense. Già lo schieramento di alcune batterie di missili anti-missile Thaad (Terminal High Altitude Area Defense) contro la minaccia dei vettori di Pyongyang - accettato senza molto entusiasmo dal governo di transizione che ha preceduto Moon (malgrado molti sud-coreani restino tuttora favorevoli), è stato da questi condannato apertamente anche per le pressioni di Pechino, la quale teme che i Thaad possano alterare gli equilibri nucleari globali sino-americani (Figura 7) : si è sfiorato un aperto incidente diplomatico, tanto le posizioni erano (e restano) distanti.

I margini di manovra di Moon Jae-in appaiono dunque molto ristretti. Specie se, contro le sue speranze, lo stato di tensione tra la Corea del Nord e il resto del mondo dovesse restare elevato. Egli appare infatti costretto a contare sulla potenza militare statunitense (seppur in forma discreta e con una certa riluttanza), ma senza nel contempo urtare la Cina, divenuta oggi il suo principale partner economico e ormai potenza regionale egemone. Le sanzioni economiche comminate da Pechino (che Moon sostiene siano costate ben 8 miliardi di dollari) contro il dispiegamento del sistema Thaad sono un segno eloquente che Seul deve tenere sempre in maggior conto la volontà e gli interessi cinesi: con Pechino, in 25 anni di relazioni ufficiali, si è sviluppato un interscambio da 300 miliardi di dollari,. mentre con Washington, lo scorso anno, il valore si è fermato a 112 miliardi. Deve inoltre cercare, pur contro voglia, anche un’intesa (se non un’alleanza) con il Giappone, da cui lo separa un abisso politico-psicologico, rimasto tuttora intatto dopo la durissima occupazione subita per 35 anni (1910-1945), ma anche un contenzioso territoriale ancora aperto. Tokio rivendica infatti l’appartenenza del piccolo arcipelago delle isole Takeshima, ricco di risorse ittiche e forse d’idrocarburi, che Seul occupa chiamandole Dokdo.
Moon, di fatto, ha dinanzi a sé due opzioni alternative. La prima consiste nel cercare di articolare la Sunshine policy attraverso gesti concreti di distensione (la riapertura della zona franca di Kaesong su tutti, ma anche, ad esempio, una riduzione bilanciata delle forze militari schierate lungo la linea di confine, la riduzione in numero e portata delle frequenti esercitazioni militari con le forze americane e la ripresa di massicci aiuti economici e alimentari a Pyongyang), nella speranza che da Kim Jong-un, almeno in parte, giungano risposte costruttive. Secondo Moon e il suo Partito Democratico, infatti, le sanzioni economiche e le intimidazioni di Stati Uniti e Corea del Sud dell’ultimo decennio hanno compromesso le prospettive di coesistenza pacifica in tutta la penisola: se la Corea del Nord non si sentisse minacciata, potrebbe trarre notevoli vantaggi materiali dal dialogo, tornando forse a congelare lo sviluppo delle sue attività missilistico-nucleari, come accadde nel 2007. L’evidente debolezza di questa opzione sta però nel fatto che una qualunque dichiarazione imprudente, incomprensione o incidente militare può far crollare di colpo l’intero processo distensivo.

La seconda alternativa, in caso di manifesto insuccesso della prima, è il ritorno a una linea intransigente. Questo però risulta in antitesi al programma elettorale con cui Moon Jae-in è stato eletto ed è impensabile che egli possa scegliere una svolta così radicale se non costretto da eventi traumatici (ad esempio, l’inizio di scontri militari aperti, seppur limitati, sul 17° parallelo o ripetute provocazioni in campo navale, come l’affondamento di unità militari o civili). I fautori di questa linea basano le loro argomentazioni sull’assunto che il regime del Nord sia tutt’altro che saldo al potere e che possa collassare se chiamato a imporre ulteriori sacrifici ai suoi cittadini, che già vivono ai limiti della fame per poter finanziare le ambizioni militari di Pyongyang. In questo caso a Seul toccherebbe però l’evidente onere di provvedere enormi e costosissimi aiuti umanitari in caso di un improvviso crollo di Kim Jong-un. Si tratta di due veri e propri assi di equilibrio: su uno dei quali Moo Jae-in sarà chiamato a camminare, mostrando la maggior sicurezza possibile.