Le possibilità che il il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) si areni definitivamente sono ormai altissime

Domenica 30 Ottobre, dopo lunghe trattative, il governo vallone ha finalmente dato il suo assenso all’applicazione provvisoria del CETA (acronimo inglese per accordo economico e commerciale globale, un trattato commerciale tra l’Unione Europea ed il Canada). Per la ratificazione finale il governo regionale belga ha chiesto precisi cambiamenti al primo ministro belga Charles Michel, al suo corrispettivo canadese Justin Trudeau, ed alle istituzioni europee. Il partito tedesco dei verdi (Bündnis 90/Die Grünen) si è unito alle proteste ed ha già dichiarato che bloccherà il CETA nel Bundesrat tedesco, avendo i numeri per farlo. Queste posizioni molto forti sono certamente strumentali alla ricerca di visibilità e consenso a livello nazionale, ma riflettono al contempo le preoccupazioni di una parte crescente della popolazione europea.

Cos’ha portato tuttavia all’attenzione delle masse un trattato commerciale tra l’Europa ed un paese fortemente sviluppato come il Canada? I trattati commerciali sono un argomento ostico e tecnico e raramente hanno saputo suscitare l’interesse dei cittadini europei. Il recente scetticismo verso di essi si inquadra presumibilmente in una più ampia disillusione nei confronti della globalizzazione (Figura 1), ed ha acquisito una forma ed una presa sulle masse del vecchio continente a partire dalle proteste nei confronti di un altro trattato commerciale con un paese nordamericano: il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (comunemente noto con l’acronimo inglese TTIP, un accordo commerciale in fase di negoziazione tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti). Il TTIP è gradualmente finito al centro del dibattito nel vecchio continente per la progressiva mobilitazione che ha generato in fasce sempre più ampie della popolazione, a larghissima maggioranza ostile ad esso. Le chances che il TTIP si areni definitivamente sono ormai altissime, e due domande sorgono spontanee di fronte a questa possibilità:

1) Quali timori hanno creato questo fronte ostile?

2) Quali occasioni si potrebbero perdere se le negoziazioni si interrompessero definitivamente come pare ormai probabile?

Come contesto, è importante ricordare che il TTIP non è certamente il primo accordo commerciale che l’Unione Europea decide di stipulare con potenze straniere (quarantuno accordi commerciali tra l’Unione Europea ed altri paesi sono già in vigore, mentre altri sette sono finalizzati ma devono ancora entrare in vigore), nè il primo che preveda un capitolo sugli investimenti (inclusi tra le competenze europee dal trattato di Lisbona). È inoltre bene tenere a mente che l’iniziativa è stata presa da parte europea (con un mandato del Consiglio Europeo per la Commissione Europea), come risposta alle negoziazioni per il partenariato trans-pacifico, conosciuto con l’acronimo TPP (un trattato tra dodici Stati del Pacifico: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti e Vietnam, al momento non ancora ratificato da nessuno di essi - Figura 2). Le élites europee temevano che il vecchio continente potesse venire ulteriormente emarginato nello scacchiere politico mondiale, dopo anni di declino costante dal punto di vista geopolitico, economico, e diplomatico. Inoltre, il TTIP avrebbe dovuto consolidare il ruolo di primo piano degli scambi transatlantici per l’Europa: se è vero che dal 2006 al 2015 il peso delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti è sceso del 2.5% in termini relativi, è bene ricordare che si tratta comunque di un aumento del 38% in termini assoluti (Figura 3). Infine, in un periodo in cui numerosi paesi europei hanno problemi ad effettuare una politica fiscale espansiva per la presenza di vincoli di bilancio rigidi, il TTIP avrebbe potuto aiutare l’anemica crescita europea, seppur di un modesto 0,5% del PIL (cioè 120 miliardi di euro).

Quali sono dunque i principali rischi percepiti su questo trattato rispetto agli altri?

· Il meccanismo di composizione delle controversie investitore-stato (anche noto come ISDS) è uno dei principali temi caldi riguardo al TTIP, dato che i cittadini europei temono che le multinazionali americane possano erodere la sovranità dei loro stati. Gli ISDS sono tuttavia pratica comune nel commercio internazionale (sono previsti in più di 3000 accordi commerciali al momento, 1400 dei quali interessano membri dell’UE), e sono nati per evitare che investitori stranieri possano venire discriminati nel mercato in cui avevano deciso di operare. Vi sono inoltre diversi tipi di ISDS tra cui le due parti potrebbero scegliere, e la resistenza americana per mantenerli all’interno della bozza può essere vista anche come reazione a tempi della giustizia ordinaria particolarmenti lunghi in alcuni stati europei (Italia in primis);

· La paura dell’abbassamento degli standard di sicurezza europei, soprattutto in ambito alimentare.
La Commissione Europea non perde occasione per ribadire che i livelli di sicurezza europea non saranno abbassati per alcun motivo, e per completezza è bene ricordare che dagli Uruguay round del 1995 esistono degli standard di sicurezza agricoli per tutti i membri dell’OMC, che non hanno portato ad un abbassamento degli standard alimentari nel vecchio continente. L’indicazione sulla provenienza dei prodotti rimarrebbe inoltre obbligatoria;

· La non chiarezza su quali Stati e settori beneficieranno del TTIP e quali saranno danneggiati. Un tema sentito e su cui gli studi pubblicati non offrono soluzioni univoche ed a prova di dubbio. I benefici del commercio internazionale (Figura 4) si basano infatti sulla progressiva specializzazione degli Stati coinvolti, che porterebbero da un lato a maggiori benefici per i consumatori, ma al contempo all’uscita dal mercato delle aziende meno competitive in determinati settori. È ovvio che senza adeguate politiche di reskilling, i lavoratori dei settori meno competitivi soffrirebbero l’apertura al commercio internazionale.

Al contempo è bene ricordare il perché l’interruzione dei negoziati potrebbe portare più svantaggi che benefici. Verrebbero meno:

· Il poter beneficiare della crescita economica americana. Gli Stati Uniti sono cresciuti infatti più dell’Europa dallo scoppio della crisi (soprattutto della zona Euro, Figura 5), e poter contare su un partner commerciale in crescita rappresenterebbe un indubbio vantaggio per gli esportatori europei (Figura 6 e Figura7);

· la creazione di un’area commerciale transatlantica ancora più coesa ed uniforme darebbe ai due contraenti l’occasione di avvicinare le due principali economie mondiali nella creazione di standard comuni, a cui giocoforza gli altri paesi del globo dovrebbero adattarsi per poter rimanere rilevanti. Si tratterebbe di un vantaggio della prima mossa che farebbe risparmiare investimenti alle compagnie europee nel caso dovessero decidere di adattarsi in futuro a standard decisi da altri;

· infine, dare nuova enfasi al commercio transatlantico dopo che l’amministrazione Obama si è molto spesa sul versante pacifico.

L’alleanza pacifica prevista dal TPP farebbe del Pacifico il centro del commercio mondiale, anche in virtù dell’enorme potenziale di crescita dell’area, e l’inattività europea porterebbe inevitabilmente ad un’accentuazione del processo di marginalizzazione del vecchio continente, benchè sia doveroso ricordare che il trattato sta a sua volta trovando un’opposizione forte in patria e che entrambi i candidati alle presidenziali americane hanno espresso reiteratamente dubbi sulla ratificazione dell’accordo.