Quanto detto nella puntata precedente richiede alcuni accenni storici. La Fratellanza musulmana viene fondata nel 1928 a Ismailia, in Egitto. C’è chi dice che nasca per mano di una loggia massonica. Il nome e il Paese natio potrebbero farlo credere. L’Egitto è da sempre terra di esoterismo commisto all’impegno filantropico. Tuttavia, l’identità squisitamente confessionale che al-Hassan al-Banna, il padre creatore del movimento, aveva attribuito alla Fratellanza potrebbe valere già da sé come smentita. Liberi muratori o no, i fratelli musulmani fanno parte di quella che viene chiamata “rinascita egiziana”, a cavallo tra l’Otto e il Novecento.

In quei decenni, vuoi per la presenza di una massiccia ed eterogenea comunità europea, quindi non musulmana, vuoi per la posizione geografica favorevole, l’Egitto vive una nuova età dell’oro. Un’epoca antitetica alla decadenza dell’Impero ottomano, di cui il Paese è ancora formalmente parte. Mentre il sultanato infatti si disgrega, per mano dei Giovani turchi e a causa delle disastrose campagne militari, non da ultima la Grande guerra, le città lungo il Nilo e affacciate sul Canale di Suez diventavano sempre più stimolanti per la diffusione di idee politiche occidentali in seno al mondo arabo-islamico. La Fratellanza musulmana quindi nasce sì come realtà egiziana, ma è fortemente influenzata dalle idee di progresso importate dalle sponde settentrionali del Mediterraneo. Solidarietà, altruismo, emancipazione del singolo e della collettività da un sistema di potere elitario. Idee occidentali sì, ma rielaborate in chiave coranica.

Nei suoi ottanta e passa anni di storia, la Fratellanza ha dipanato un’identità politica articolata e, alle volte, contraddittoria. Oggi i luoghi comuni tendono a far coincidere i fratelli musulmani con le correnti più fanatiche dell’islamismo politico. Diffusa ma approssimativa è l’equazione Fratellanza=Jihad. In realtà, il presidente egiziano, Mohammed Morsi, e il suo governo certo non possono equipararsi a un uomo quale Ayman al-Zawahiri, il medico egiziano che nella Fratellanza ha mosso i primi passi politici, per poi degenerare e sposare la causa di al-Qaeda. Del resto, gli estremismi sono prevedibili. Specie in un contesto politico com’è quello mediorientale, dove le istituzioni e le forme di aggregazione sociale di stampo europeo devono convivere con tradizioni clanico-tribali. E non è un caso che la Fratellanza musulmana solo da poco tempo venga classificata come un partito politico tout court. Quando prima si preferiva considerarla un movimento. Un distinguo atto a indicare la sua evoluzione ancora in essere.

Tuttavia, mentre da un punto di vista politico-ideologico, la Fratellanza resta un mutante – e per questo fa tanta paura – in termini sociali ed economici abbiamo a che fare con una realtà dai tratti ben definiti. Nella scorsa puntata si parlava del suo Welfare parallelo a quello legittimo. Un apparato produttivo e soprattutto amministrativo sotterraneo di cui è difficile quantificarne i profitti, ma del quale è palese l’obiettivo.

Dal 1928 a oggi, la Fratellanza musulmana non ha fatto altro che tentare di aiutare la popolazione egiziana a colmare gli spazi lasciati vuoti dal potere costituito. Un impegno filantropico, portato avanti secondo un’impostazione ideologica netta, il riferimento all’Islam, e transnazionale. Dall’Egitto il movimento ha fatto breccia in Giordania, Siria e in alcune realtà della galassia palestinese. Fino a oggi, si diceva. Perché, dopo la fine di Mubarak, la Fratellanza è stata chiamata anche a governare.

Proprietà immobiliari, scuole, cliniche private, società di assistenza varia. Sono questi i grandi settori di attività mediante i quali la Fratellanza è riuscita a ottenere il sostegno dell’elettore medio egiziano. De Soto e il suo staff sono impegnati a quantificare questo impero. Secondo l’economista peruviano solo il comparto edilizio sarebbe stimabile intorno ai 360 miliardi di dollari. Un impero economico, non c’è dubbio. Tuttavia nulla se lo si confronta con i 21 ospedali di sua proprietà e aperti in tutto il Paese, o con le scuole presenti in ogni governatorato della Repubblica araba d’Egitto, alle quali può accedere gratuitamente chiunque. Orfani e figli di vedove compresi.

Ora, perché mai un patrimonio a così tanti zeri sfigura di fronte alle appena 21 cliniche? Per il semplice fatto che il primo porta soldi, ma sono le seconde a far vincere le elezioni. Le cure mediche garantite gratuitamente a un vecchio o a una donna incinta prevedono un sicuro tornaconto elettorale. Un riconoscimento nell’urna sia del paziente quanto della sua famiglia. É una forma di clientelismo, certo.

Ed è qui che entra in gioco l’economia informale della cui teorizzazione de Soto è il padre. I Fratelli musulmani hanno realizzato un complesso produttivo completamente nascosto agli occhi del fisco e della legge. Irregolare, ma non illecito. Non come lo sono gli affari della mafia che fugge dalle regole dello Stato nell’ottica di un profitto maggiore. Le attività della Fratellanza musulmana invece – per quanto siano anch’esse perseguibili dalla magistratura – viaggiano su canali paralleli. Esse vanno contro le regole non perché, per partito preso, rappresentato un ostacolo al profitto, bensì perché le vedono come il risultato giuridico di una società corrotta e inefficiente. Il loro concetto di profitto non coincide con quello canonico, nutrito nei salotti buoni del Cairo e di Alessandria e nel mondo della finanza occidentale.

Sostegno politico, consenso sociale, sostenibilità di un soggetto visto come trasparente e pulito. Attraverso medici, insegnanti e soprattutto imam, la Fratellanza musulmana è riuscita a conquistare il cuore della società egiziana. Un’operazione lunga, che appunto ha richiesto ottant’anni di fatica e persecuzioni, ma sostanzialmente semplice nella sua coniugazione.

Secondo l’ultimo censimento, la famiglia nucleare egiziana è composta mediamente da quattro persone. A rigor di logica: padre, madre e due bambini. Basta che le Fratellanza assicuri ai due figli un livello di istruzione decente, che già ha conquistato il cuore dei genitori. Se si tiene conto che il livello di analfabetismo nel Paese è prossimo al 30%, si capisce quanto i fratelli siano essenziali nel soddisfare i desideri di emancipazione nutriti dalla cittadinanza. Insomma, la Fratellanza non fa ricchezza, non ne cerca e tanto meno ne distribuisce. Almeno se di ricchezza in senso occidentale si sta parlando.

Nel 2010, Donato Speroni in un saggio intitolato “I numeri della felicità” metteva in evidenza come Pil, profitto e altri sistemi di misura economica classici siano alle volte impropri per quantificare il benessere di un Paese. Il benessere o, ancora meglio, la felicità. I profitti dei fratelli musulmani noi al momento non li possiamo quantificare. Per questi siamo in attesa dei numeri di de Soto. Tuttavia, possiamo parlare della felicità da loro prodotta. Il cui tornaconto lo vediamo in politica, ora che Morsi è presidente. (continua - 2)