Di seguito mostriamo prima il punto di vista di chi considera i Paesi baltici un modello per gli altri Paesi europei in crisi, e poi il ragionamento che spiega perché i primi possono risanarsi così in fretta. Si vede dal secondo ragionamento che è il contesto politico dei Paesi baltici il segreto del risanamento veloce, e come questo sia difficile da imitare negli altri Paesi. Entrambi i ragionamenti sono estremisti, ma rendono bene l’idea della posta in gioco. Li riportiamo senza commenti. Appena pubblicata la nota, abbiamo ricevuto da un lettore un terzo punto di vista – che la rende più Rashomon – e che pubblichiamo di nuovo senza commenti.

I Paesi baltici sono un modello per la Grecia e per gli altri
Disciplina fiscale, austerità senza troppi piagnistei, qualche crisi di governo, molti allarmismi su contagio all’est ribaltati poi da dati in crescita. È questo il modello baltico, che per il «Financial Times» è «l’anti Grecia» (1). In particolare vale per l’Estonia, che si è guadagnata il ruolo di  «identikit» cui rifarsi per stabilire i candidati da ammettere nella zona euro. Mentre molti, come Niall Ferguson su «Newsweek» (2), dicono che se l’esperimento dell’euro sta mostrando i limiti che già erano scritti dall’inizio degli anni Novanta negli accordi e nei trattati da Maastricht in poi, Tallin dimostra il contrario: l’euro è ancora un prodotto desiderabile, e raggiungibile.

«L’Estonia sembra un modello di quella disciplina fiscale che ora l’Unione Europea vuole per tutta la zona euro», ha detto un esperto a «Business Week» (3).

Tallin ha ottenuto il via libera all’adozione della moneta unica (4), che dovrebbe avvenire nel gennaio del prossimo anno. E la cosa non era certo scontata. Soltanto due anni fa, era scoppiata nel Paese la bolla immobiliare, sfasciando il sistema bancario e portando a una contrazione del Pil nel 2009 pari al 14%. Per molti la svalutazione appariva inevitabile, ma i prezzi flessibili hanno permesso invece una stabilizzazione: le esportazioni sono cresciute di un sesto nel primo trimestre del 2010 e la banca centrale estone prevede una crescita quest’anno pari all’1%. I parametri europei sono più che rispettati: il debito è il 7,2% del Pil e il deficit è dell’1,7% (quello della Grecia è del 13,6); l’inflazione è bassa. L’unico problema grave e di non immediata soluzione è la disoccupazione: è al 19% (in Spagna è del 22), ma di fatto l’Estonia è l’unico Paese del continente a soddisfare le regole comunitarie. Secondo la Commissione europea, ha avuto una performance fiscale migliore rispetto ai 16 paesi che già posseggono l’euro.

L’ultima parola spetta al Consiglio europeo a fine maggio e poi ai ministri delle Finanze che si riuniscono a giugno. Alcuni pensano che il problema dell’Estonia sia politico, non economico: se davvero è così stabile – dicono – lo sarà anche il prossimo anno, non mettiamo sotto pressione la zona euro già sufficientemente provata. Non è di molto tempo fa tutta la retorica sul contagio a est della crisi finanziaria, dovuta alla grande esposizione verso questi paesi delle banche dell’Europa occidentale. In gioco c’è naturalmente l’eterno dibattito sull’allargamento: è utile o serve soltanto ad annacquare un’Unione che già non si sente tanto bene?

I sostenitori insistono nel dire che non c’è cura migliore per il malato europeo dell’avere sempre più in casa, sempre più sotto gli occhi il modello estone.

 
Che cosa c’è dietro il risanamento dei Paesi baltici (5)
There is growing recognition that the post-Soviet economies were structured from the start to benefit foreign interests, not local economies. For example, Latvian labor is taxed at over 50% (labor, employer, and social tax) – so high as to make it noncompetitive, while property taxes are less than 1%, providing an incentive toward rampant speculation. This skewed tax philosophy made the ‘Baltic Tigers’ and central Europe prime loan markets for Swedish and Austrian banks, but their labor could not find well-paying work at home. Nothing like this (or their abysmal workplace protection laws) is found in the Western European, North American or Asian economies.
 
Paying in euros – for real estate and personal income streams in negative equity, where the debts exceed the current value of income flows available to pay mortgages or for that matter, personal debts – is impossible for nations that hope to maintain a modicum of civil society. ‘Austerity plans’ IMF and EU style is an antiseptic, technocratic jargon for life-shortening and killing impact of gutting income, social services, spending on health on hospitals, education and other basic needs, and selling off public infrastructure for buyers to turn nations into ‘tollbooth economies’ where everyone is obliged to pay access prices for roads, education, medical care and other costs of living and doing business that have long been subsidized by progressive taxation in North America and Western Europe.


Socialismo reale e Paesi baltici

Aggiungo un terzo punto di vista: senza sapere nel dettaglio come funzionano le leggi lettoni sul mercato del lavoro, posso affermare, conoscendo bene quel mondo, che esse sono state prodotte pensando ai retaggi del socialismo. La stessa cosa è accaduta in Russia, dove una forza lavoro sicuramente molto poco disciplinata, ma comunque più istruita e industrializzata di quella asiatica, non è stata messa in opera per ospitare la delocalizzazione (e quindi anche la modernizzazione tecnologica, infrastrutturale e culturale) occidentale per motivi ideologici.

 

La pretesa di una protezione della manodopera da welfare state in un Paese che non può permetterselo, invece di beneficiarla, la ammazza. Quindi l’accusa di voler costruire in Lettonia e altri Paesi dell’Est una società selvaggia, dove si paga tutto, è sbagliata. In realtà «il selvaggio» nasce, invece, dalla buona intenzione di non arrivare a questo punto.

 

Vorrei ricordare anche che la peculiarità della Lettonia è una grande massa di russi più o meno apolidi, quindi stiamo parlando di un paese etnicamente molto diviso, dove quasi la metà della popolazione a) non è etnicamente omogenea, b) non condivide i valori culturali «europei», c) è quasi totalmente composta da lavoratori dipendenti, in gran parte dell'industria ex sovietica, d) è lesa nei suoi diritti politici, ma organizzata sindacalmente per rivendicare quelli economici.

 

Quindi possiamo ipotizzare che sia nel caso «positivo» del rigore finanziario sia nel caso «negativo» della non competitività artificiale del mercato del lavoro, nell’Est ex sovietico abbiamo a che fare con un retaggio sovietico. Nel secondo caso abbiamo già detto di un eccesso di tutele sociali per conservare il consenso, nel primo invece si tratta di una catena di comando corta con un’abitudine della popolazione a non mettere in discussione le decisioni del governo.

 

Apparentemente contraddittorio, ma è così. Di conseguenza, con una europeizzazione dei Baltici, il vantaggio del governare brusco verrà meno con lo sviluppo dei meccanismi elettorali e di consenso, mentre lo svantaggio di una tutela eccessiva resterà e non farà che crescere, in quanto il benchmark non saranno più le tutele del mercato del lavoro sovietico, ma quelle dell’Europa «vecchia», forse ancora maggiori.

(1) http://www.ft.com/cms/s/0/03715cf2-5ec0-11df-af86-00144feab49a.html

(2) http://www.newsweek.com/id/237645

(3) http://www.businessweek.com/magazine/content/10_21/b4179010007511.htm

(4) http://online.wsj.com/article/SB10001424052748703339304575239950668542816.html?mod=WSJ_latestheadlines

(5) http://neweconomicperspectives.blogspot.com/2010/04/coming-european-debt-wars.html