La disabilità e i suoi riferimenti
La disabilità è un concetto universalmente riconosciuto, di cui gran parte della popolazione è tuttavia poco consapevole. Può sembrare una contraddizione, ma riflette bene la realtà odierna: tanti mezzi e possibilità per informarci, ma una solidarietà che resta, molto spesso, sulla carta, e si manifesta in modo esclusivamente “espressivo”. Gli approcci e le definizioni che si possono attribuire alla disabilità sono molti, e variano in base a una serie di fattori, tra i quali senza dubbio emerge il contesto culturale. All’interno di quest’ultimo, un elemento chiave che influisce sulla percezione che le persone sviluppano della disabilità sono le figure di riferimento con cui interagiamo fin dall’infanzia. Ma quali sono queste figure? E quanta influenza hanno sul nostro modo di vedere e percepire le cose?
Durante le prime fasi della crescita, quando i bambini iniziano a integrarsi nella società e a diventarne membri, sviluppano non solo la propria identità e i legami con la famiglia e i coetanei, ma anche preferenze sociali e pregiudizi. Crescere in contesti sociali omogenei e chiusi può accelerare l’insorgenza di preconcetti verso i cosiddetti out-group, ovvero persone che non fanno parte del nostro gruppo di appartenenza, mentre l’interazione con essi può portare i bambini a integrarli nel proprio concetto di sé, favorendo l’inclusione. Una migliore comprensione della disabilità, così come di qualsiasi out-group, riduce le paure nei suoi confronti e stimola atteggiamenti favorevoli verso le persone che ne sono interessate. Esiste una evidente continuità nella formazione dei tratti della personalità dall’infanzia all’età adulta, i quali influenzano le nostre credenze e comportamenti nel corso del tempo. Per questo, le figure di riferimento, la famiglia in primis, che ci accompagnano a partire dai primi anni di vita finiscono per condizionare profondamente la percezione che abbiamo di chi ci circonda.
Le conversazioni esplicite tra genitori e figli riguardo la disabilità contribuiscono ad accrescere la comprensione dei bambini sul tema, favorendo così una riduzione dei pregiudizi. Il fatto che il tema della disabilità sia ancora oggi considerato un tabù comporta un rischio più alto che si radichi nei bambini il timore di affrontarlo, che sfocia poi nell’evitamento impiegato come arma di difesa.
A questo proposito, Tommaso Fratini (docente di Didattica e Pedagogia specializzato in inclusione, disabilità e disagio sociale) ha di recente riformulato il concetto di pregiudizio, identificandolo «nei termini della conseguenza di meccanismi di difesa […], proprio per spiegare le resistenze sociali ad accogliere la diversità intrinseca alla disabilità». Se questa resistenza, o addirittura ostilità, parte dai genitori, è automatico che i figli sviluppino un sentimento negativo nei confronti del concetto di disabilità e quindi delle persone che ne sono portatrici, unito all’imbarazzo che deriva dall’essere impreparati a rapportarsi con qualcosa o qualcuno che non rientra nel nostro concetto di «normalità».
Una soluzione può essere cercare di avere più contatto con la disabilità, anziché relegarla a un concetto remoto di cui non si deve parlare se non c’è la necessità. Questo porterebbe innanzitutto a una comprensione più profonda della disabilità, ma anche a una maggiore accettazione e inclusione sociale: interazioni positive con coetanei disabili rendono i bambini più consapevoli e attenti agli stati emotivi altrui e più inclini ad accettare compagni con disabilità, soprattutto nel contesto scolastico.
Disabilità e bullismo
I ragazzi e le ragazze con disabilità hanno più probabilità di essere coinvolti nelle dinamiche di bullismo, in quanto ‘diversi’ dal gruppo dei pari. Quando una persona viene maltrattata per la sua disabilità si parla di disabilist bullying e questo include forme verbali, come gli insulti; forme di bullismo indiretto, come l’esclusione sociale; bullismo fisico e cyberbullismo, che si verifica attraverso internet. Chi mette in atto questo tipo di prevaricazione si sente legittimato specialmente perché trova appoggio in stereotipi e pregiudizi annidati nella politica della società, in strutture talvolta anche istituzionali, e nelle relazioni interpersonali. Nel contesto scolastico, è l’insegnante che deve mettere fine alle prepotenze, intervenendo tempestivamente quando si verifica un atto di bullismo. Inserire bambini con sviluppo tipico e bambini con disabilità nella stessa classe dovrebbe contribuire a diminuire i pregiudizi e a migliorare l’attitudine verso i bambini disabili. Inoltre, l’inclusività della scuola è funzionale alla riduzione del rischio di bullismo e vittimizzazione anche in proiezione futura, per cui serve un’educazione profonda alla disabilità, una promozione attiva di interazioni positive e di accettazione tra gli studenti. La questione dell’esclusione sociale, con cui la maggior parte delle persone disabili ancora oggi deve fare i conti, costituisce forse l’ostacolo più insidioso per il raggiungimento della piena inclusione.
È bene tenere presente che questo obiettivo dipende da un necessario cambiamento della società. L’inclusione non può ridursi a una semplice integrazione o adattamento a un certo ambiente; deve invece puntare a un reale miglioramento della qualità della vita, tanto per l’individuo quanto per la comunità.
Uno sguardo ai dati
Secondo il recentissimo report sull’inclusione scolastica degli alunni con disabilità pubblicato dall’Istat a marzo di quest’anno, gli alunni con disabilità che frequentano le scuole italiane di ogni ordine e grado sono in continuo aumento: quasi 359mila nell’anno scolastico 2023-2024, il 4,5% del totale degli iscritti (+6% rispetto al precedente anno scolastico), e ben 75mila in più negli ultimi cinque anni (+26%).
La quota è più alta nella scuola primaria e secondaria di primo grado, dove si attesta al 5,5%, e ci sono sensibili differenze in termini di genere: gli alunni con disabilità sono prevalentemente maschi, 228 ogni 100 femmine. Il problema più diffuso è la disabilità intellettiva, che riguarda il 40% di questi studenti , seguito dai disturbi dello sviluppo psicologico (35%), Meno frequenti invece sono le problematiche relative alla disabilità motoria (9%) e alla disabilità visiva o uditiva (circa 7%). Più di un quarto degli studenti con disabilità (28%) ha un problema di autonomia, legato alla difficoltà nello spostarsi all’interno dell’edificio, nel mangiare, nell’andare in bagno o nel comunicare.
Cresce fortunatamente anche la quota di docenti per il sostegno con una formazione specifica: dal 63% al 73% in quattro anni, ma sono ancora molti quelli non specializzati o assegnati in ritardo e resta elevata la discontinuità nella didattica: più di un alunno su due ha cambiato insegnante per il sostegno da un anno all’altro
Lo studio ribadisce l’importanza della relazione con il gruppo classe, che può facilitare anche l’accettazione della malattia da parte di chi ne è affetto: i rapporti con i compagni e le compagne di scuola costituiscono una risorsa decisiva per l’inclusione e per migliorare la percezione che il bambino con disabilità ha di se stesso, soprattutto quando tende a paragonarsi agli altri. Per questo, è fondamentale risolvere i problemi legati alla partecipazione degli alunni con disabilità ad attività didattiche extra-scolastiche, dalle quali rimangono spesso esclusi per la carenza di iniziative e mezzi adeguati a garantirne la presenza. Tra gli altri punti critici, oltre alla discontinuità nel rapporto tra l’alunno e l’insegnante di sostegno,da segnalare la scarsa implementazione delle tecnologie informatiche e le numerose barriere architettoniche che persistono nelle scuole italiane.
Il contesto culturale è un altro ambito da non sottovalutare. Mentre le società individualistiche promuovono il rispetto per le differenze, i valori e gli obiettivi personali, quelle collettiviste valorizzano gli obiettivi di gruppo e l’uniformità di apparenza e pensiero della popolazione; tale pressione rende negativa ogni deviazione dalla norma. In alcune comunità di territori come Cina, Taiwan e Hong Kong, per citare solo un esempio oltre confine, si ritiene che la disabilità derivi da fattori quali comportamenti sessuali scorretti dei genitori, peccati di vite passate, stregoneria, maledizioni familiari, punizioni divine o l’influenza di spiriti maligni. La vergogna associata a queste credenze e al concetto di «perdita della faccia» ha portato all’esclusione sociale delle persone con disabilità; questa visione impedisce loro anche l’accesso a risorse, cure mediche e interventi speciali. Mentre nei paesi asiatici la menomazione sembra essere l’unica caratteristica che definisce l’identità e la vita sociale, nei paesi occidentali, culla dei disability studies, è sempre più evidente il tentativo di anteporre la persona alla sua disabilità e di estenderne i diritti e le opportunità (si veda, a questo proposito, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006)[1].
Bisogna ricordare che le culture non sono omogenee e sono in costante evoluzione: ciò che era accettato come norma in passato potrebbe non esserlo più nel presente e, ad esempio, la diffusione di programmi di educazione inclusiva può trasformare radicalmente le percezioni della disabilità nel corso del tempo. I bambini acquisiscono i concetti culturalmente definiti di abilità e disabilità attraverso le interazioni quotidiane con coetanei e adulti, così come dai media. Non è da sottovalutare l’influenza che possono avere sulle nuove generazioni i modelli di riferimento che negli ultimi anni stanno prendendo sempre più piede: oltre alle celebrità tradizionali, come attori e cantanti, anche youtuber, tiktoker e influencer. Questi ultimi sono ancora più vicini ai ragazzi grazie alla connessione costante tramite gli smartphone e i social, che permettono di essere sempre aggiornati in tempo reale e seguire una persona in tutto e per tutto. L’aspetto negativo che ne consegue è che i più giovani, in particolare gli adolescenti, non avendo ancora avuto modo di formarsi e conoscersi a pieno, sono facilmente influenzabili e manipolabili. Per questo, è fondamentale che chi è consapevole di avere un seguito molto giovane faccia doppiamente attenzione ai messaggi che trasmette attraverso i contenuti pubblicati in rete e che sfrutti la sua popolarità anche per incoraggiare l’inclusione sociale e per sconfiggere gli atteggiamenti violenti e discriminatori verso le persone con disabilità e qualsiasi categoria che sia considerata «debole» o «anormale».
Vulnerabilità e agency
In conclusione, una cultura attenta al tema del dolore, fisico e mentale, che riconosca la vulnerabilità umana universale come base per l’incontro e l’accettazione della diversità, sembra essere il solo percorso efficace per annientare i pregiudizi. Tuttavia, questa lotta deve fronteggiare il culto della performance, dell’egoismo, della competizione per la conquista del potere, tipici della società di oggi. Questa mentalità agisce a livello profondo, si radica nelle prime interazioni sociali in famiglia e, passando per l’età infantile, trova nell’adolescenza un terreno fertile per svilupparsi e diffondersi. Adottare una vera prospettiva inclusiva significa, quindi, trovare innanzitutto il coraggio di opporsi a questa tendenza all’omologazione, che non fa altro che alimentare i pregiudizi nei confronti di chi è più fragile e, in quanto tale, «diverso». In secondo luogo, vuol dire rendersi conto del peso delle parole (le parole fanno cose, scriveva negli anni Sessanta John Austin), e degli atteggiamenti che mostriamo sulla percezione e i comportamenti dei soggetti più piccoli, e, di conseguenza, agire consapevolmente per fare in modo che acquisiscano, in fase di formazione, criteri di orientamento e senso di giustizia.
[1] Le differenze e i punti di incontro nella percezione della disabilità in culture diverse saranno oggetto di un prossimo articolo. Verranno approfonditi, insieme al contesto culturale italiano, anche quello anglo-americano e cinese, per analizzare la realtà di paesi lontani non solo idealmente, ma anche geograficamente.
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