Nel dibattito politico odierno si parla sovente di “Stato imprenditore” (o “innovatore”), concetto diffuso soprattutto a partire dal lavoro dell’economista Mariana Mazzucato. La Mazzucato, sovente celebrata come astro nascente di un nuovo pensiero economico, propone un’idea assai suadente agli orecchi di politici e funzionari: chi non vedrebbe con favore chi dice al mondo: “tu meriti di poter gestire più soldi”? 

Dinanzi a ciò, potrebbe aprirsi un bel match “liberisti contro statalisti”, andando a dibattere se l’idea abbia senso e se, in termini di finanza pubblica, le risorse necessarie vadano reperite in deficit, o aumentando le tasse, o riducendo la spesa corrente. Ma, ancora prima, suggerirei qualche valutazione puramente pragmatica.

In fondo, il pensiero della Mazzucato è la scoperta dell’acqua calda: che “il pubblico” abbia un ruolo fondamentale nello sviluppo tecnologico e nell’innovazione è noto dall’antichità e, anche nei Paesi più “liberisti” (dalla Svizzera a Singapore, agli USA), è un ruolo evidente e indiscusso. Se tutto ciò è pacifico, le vere domande sono altre: Quale deve essere questo ruolo? E quali condizioni lo rendono efficace?

Se guardiamo agli USA, principale caso di studio a supporto della teoria, lo Stato non ha avuto velleità imprenditoriali “alla Beneduce”, nel senso di costituire, controllare, o finanziare società, quanto “imprenditive”. Si è cimentato in sfide ambiziose e complesse, dallo spedire l’uomo sulla Luna al disporre di armamenti sofisticati e, a tal fine, ha favorito lo sviluppo di un ecosistema complesso e dinamico, con attori pubblici e privati: si pensi alla NASA e al Department of Defense, con le relative strutture di R&S e i loro fornitori. In questo contesto, è fondamentale il concetto di Public Technology Procurement, con il quale il governo crea un primo mercato alle tecnologie emergenti, con benefici pubblici immediati (es. un esercito potente) e, quindi, importanti spillover nel settore privato, questi però non governati da volontà politica. I robot militari sviluppati per il DoD da iRobot hanno ora pacificamente invaso le nostre case per lavarne i pavimenti; il GPS è stato sì sviluppato nel pubblico, ma i successivi impieghi, dal trovare monopattini in sharing al tagging delle foto, sono frutto di creatività e sperimentazioni attuate nel libero mercato. In sintesi, uno “Stato committente”, più che “imprenditore”. È una scelta assai avveduta: decidere quali delle mille proposte finanziare “sulla carta” è difficile e rischioso; è meglio promettere commesse pubbliche consistenti a chi saprà mettere sul tavolo soluzioni funzionanti, sapendo che tale prospettiva convincerà attori privati a intervenire nel finanziamento.

Dato il ruolo, quale tipo di Stato? Gli USA non hanno attirato nell’orbita pubblica pezzi del settore privato. Al contrario, hanno spinto parte del settore pubblico a ragionare da operatore privato, badando più al raggiungimento di obiettivi che al rispetto di vincoli formali, e accettandone i rischi. Se un ufficiale del DoD incaricato di cercare nuove tecnologie vede una startup interessante, il contratto di Proof of Concept arriva in pochi giorni e con pochi passaggi burocratici, così come iRobot ha vinto commesse pubbliche perché le regole non penalizzavano le startup a favore di imprese incumbent. Analogo dinamismo “imprenditoriale” è riscontrabile anche nel ruolo di regolatore. Dall’avvio di piattaforme come Uber alla sperimentazione della guida autonoma, le autorità USA si sono dimostrate aperte alle novità, consapevoli che è sciocco regolamentare ciò che non ha ancora mosso i primi passi, e in base al principio che ciò che non è esplicitamente proibito vada permesso. Su questi due temi il confronto con l’Europa, e soprattutto con l’Italia, è impietoso: provate a convincere un funzionario di una ASL a scrivere un bando che permetta di acquistare beni o servizi innovativi anche da startup, o un dirigente provinciale ad autorizzare un impianto pilota innovativo nel campo della circular economy. Certo, la cultura amministrativa e le norme sono assai diverse sulle due sponde dell’Atlantico ma, proprio perché rilevanti, queste differenze non possono essere trascurate.

Che fare, dunque? Va bene pensare allo Stato come promotore di trasformazione, ma facendolo bene. Condizione necessaria e irrinunciabile è evitare che “il pubblico” possa nuocere ai processi innovativi e rendere inefficaci le azioni di policy, e questo richiede di operare drasticamente sui processi della PA e sulla giustizia.

Poi, si disegnino le policy in modo razionale: come nessuna persona intelligente punterebbe alla roulette sia sul rosso che sul nero, lo Stato smetta di dedicare risorse sia alla crescita delle imprese innovatrici, sia a tenere in piedi quelle che ne vengono spiazzate (Alitalia è solo la punta dell’iceberg di questa mentalità e costa al contribuente 1,8 milioni al giorno). Infine, rifletta bene sui rischi di un sistema di innovazione autoreferenziale e un po’ “sovranista”, che parte dalle risorse di Cassa Depositi e Prestiti per atterrare nella pancia delle grandi partecipate statali: quale può esserne l’attrattività per gli innovatori bravi?

In conclusione, l’ingenuo innamoramento di politici e funzionari pubblici verso il concetto di “Stato imprenditore” denota, nel trascurare contesto e problematiche attuative, grande superficialità. Se qualcuno mi dice che, in un Paese lontano, viaggiano veloci mettendo benzina nei mezzi di locomozione, dimenticandosi però di specificare che si parla di motociclette, non mi parrebbe una grande idea dare benzina al cavallo e pretendere che faccia “brum” quando gli si torce l’orecchio. Se va bene, capita nulla; se va male, rischio un calcione.