Per molti l’Europa, o meglio l’Unione Europea, o, meglio ancora l’Europa della moneta unica, è un mondo che: 1) promuove un cambiamento che genera insicurezza; 2) spinge verso un mondo che premia il merito penalizzando la gente “comune”: 3) accetta le ondate migratorie (queste ultime saranno analizzate in un prossimo articolo).

Per molti questo mondo può essere fermato dai partiti che vogliono il ritorno della “sovranità”. Per molti la “sovranità” è più vicina agli interessi della gente “comune” di quanto non lo sia un organismo super nazionale come l’Unione Europea e i partiti che la appoggiano. Per molti il ritorno della sovranità si manifesta anche attraverso la messa in sordina dei succitati tre punti. Proviamo ad affrontare i primi due contenziosi  sine ira et studio.

L’insicurezza

Il nucleo della scelta fatta in Italia negli anni Novanta di cedere sovranità monetaria – ossia di sostituire la Lira con l'Euro, aveva tre obiettivi: (a) frenare la spesa pubblica attraverso un ruolo maggiore dei mercati finanziari; (b) eliminare la vulnerabilità del sistema che trae a origine dagli alti tassi di interesse espressi in lire; (c) mutare la politica prevalente negli anni Settanta e Ottanta con l'adozione di una moneta non più controllata dall'Italia, perché altre opzioni che fossero realistiche non erano disponibili.

(a) Il debito pubblico italiano fin agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, negli anni Novanta, il debito pubblico è passato nelle mani delle famiglie. Era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti elevati, queste lo sottoscrivevano. Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. Il Principe non faticava troppo per ricevere il consenso degli elettori, perché il debito crescente si sarebbe poi scaricato sui non nati, che non votano.

Arriva con gli anni Novanta il momento del Mercato nella doppia direzione degli italiani che possono investire all'estero, e dell'estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono finalmente formare: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto, per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco? Il Principe deve ora, e a differenza di prima, convincere una platea piuttosto vasta e molto più formata che il suo debito vada sottoscritto. Cambia così la natura del rapporto: nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito pubblico, nel secondo deve farlo.

(b) L'Italia aveva una base industriale, ma essa era penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipendeva dall'inflazione corrente e dall'incertezza intorno a suo corso futuro. L'incertezza richiede un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costava molto più che in altri Paesi e penalizzava l'industria italiana, ma anche le famiglie se accendevano i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi.

Vincolando il cambio, e vincolando il bilancio pubblico al solo finanziamento con obbligazioni - ossia senza emissione di moneta, l'inflazione non poteva che scendere. Se l'inflazione si comprime, ecco che i tassi reali d'interesse si comprimono, perché scompare il premio per il rischio. Ecco allora che l'industria italiana non sarebbe stata più penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.

(c) La decisione di aprire ai mercati finanziari – il punto (a), e di adottare l'euro – il punto (b) avevano un importante risvolto politico, perché il meccanismo dell'aggiustamento dei conti e del consenso che si otteneva con le svalutazioni sarebbe stato reso impossibile.
I salari in Italia soprattutto negli anni Settanta crescevano più della produttività. Man mano che crescevano i differenziali di inflazione da costi con gli altri Paesi,  le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. Entrambe le prime due opzioni erano di difficile se non impossibile attuazione.
C'era una terza opzione. La svalutazione della lira, che era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le relazioni industriali. Non solo, il livello tecnologico poteva non evolvere con tutti i vantaggi legati alla conservazione dei rapporti economici in essere. Ergo, l’euro spingendo il Bel Paese a trasformarsi senza vie di mezzo, non poteva non alimentare l’insicurezza.

 Meritocrazia e risentimento - il modello

Abbiamo una prima società che sia un'aristocrazia, in cui il reddito e la ricchezza sono determinati dal caso della nascita e trasmessi da una generazione all'altra. Coloro che sono nati da famiglie nobili sono ricchi e quelli nati da famiglie contadine sono poveri. Lo stesso varrà per i loro figli e per i figli dei loro figli. Abbiamo una  seconda società che sia una meritocrazia. Le sue disuguaglianze di reddito e ricchezza non sono il risultato di privilegi ereditari, ma il risultato di ciò che le persone hanno guadagnato attraverso lo sforzo e il talento.

Basta questa argomentazione per preferire la seconda società alla prima?  Un'aristocrazia è ingiusta, perché relega le persone alla classe in cui sono nate. Non le lascia “lievitare”. La meritocrazia consente alle persone di migliorare la propria condizione esercitando il proprio talento e ingegno. Questo è un argomento a suo favore.  Ma la meritocrazia non elimina le disuguaglianze. Proprio perché le persone differiscono nei loro talenti e nelle loro ambizioni, alcuni salgono più in alto di altri. Si può però affermare che queste disuguaglianze riflettono i meriti delle persone piuttosto che le circostanze della loro nascita.

Supponiamo di sapere in anticipo dove uno nasce, se in cima o in basso. In quale di queste due società uno preferirebbe  vivere se fosse ricco, e in quale se fosse povero?
Si assume che entrambe le società siano altamente diseguali. Si potrebbe concludere che, dal momento che il divario tra ricchi e poveri è ugualmente netto in entrambe le società, sapere quale posizione si occuperà non aiuta a decidere quale società preferire. Ma il reddito e la ricchezza non sono l’unica considerazione. Se ricco, uno potrebbe preferire la società che permette di lasciare in eredità la ricchezza e i privilegi ai figli. Questo deporrebbe a favore della società aristocratica. Se povero, uno potrebbe preferire la società che ha dato a voi, o ai vostri figli, la possibilità di crescere.
Le persone si preoccupano non solo di quanti soldi hanno, ma anche di che cosa significhi la loro ricchezza o la loro povertà per la loro posizione sociale e autostima. Ciò che cosa implica? Nati nelle sfere di un'aristocrazia, si è consapevoli che il privilegio è stata la fortuna, non il merito. Mentre se si sale, grazie allo sforzo e al talento, all'apice di una meritocrazia, si può essere certi che il successo è guadagnato e non ereditato. A differenza del privilegio aristocratico, il successo meritocratico porta un senso di realizzazione. Da questo punto di vista, è meglio essere ricchi in una meritocrazia che in un'aristocrazia. Per ragioni simili, essere poveri in una meritocrazia è demoralizzante.

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Se, in una società feudale, uno fosse nato nella servitù della gleba, la sua vita sarebbe dura, ma non sarebbe gravata dal pensiero di essere responsabile della sua posizione subordinata. Né lavorerebbe con la convinzione che chi sta molto meglio abbia raggiunto la posizione perché più capace e intraprendente. Si saprebbe che non è più meritevole, solo più fortunato. Se, al contrario, uno si trova sul gradino più basso di una società meritocratica, difficilmente potrebbe resistere al pensiero che il suo svantaggio sia, almeno in parte opera sua, un riflesso della sua incapacità di mostrare abbastanza talento e ambizione per andare avanti.

Una società che permette alle persone di elevarsi, e che celebra l'ascesa, pronuncia un verdetto severo su coloro che non lo fanno. Si ha così la discrepanza di fondo fra “merito” e “destino”. Chi ha ottenuto dei risultati pensa di averli meritatamente guadagnati, chi non li ha avuti pensa che alberghi un'ingiustizia. Da qui il risentimento di chi non è riuscito, e da qui il desiderio che la meritocrazia non dilaghi.

Meritocrazia e risentimento -  la storia

L'analisi delle serie statistiche mostra che, in Europa dal XIX° secolo fino alla Grande Guerra, il possesso del capitale (immobiliare e mobiliare) generava un reddito (rendite fondiarie, affitti, dividendi, cedole) cospicuo. Dalla Grande Guerra fino ai primi anni Settanta del XX° secolo – quindi dalla fine della Prima Guerra fino a un paio di decenni dopo la Seconda - il peso del capitale in Europa si è contratto, perché l'inflazione ha quasi azzerato il valore delle obbligazioni e si è avuto una crisi notevole delle imprese, oltre alla perdita delle rendite coloniali. Questi sommovimenti nel corso di qualche decennio hanno abbattuto il capitale e quindi il reddito dei ricchi. Agli inizi del secolo scorso finisce così l'epoca del “rentier”. Nel Secondo Dopoguerra, sempre in Europa, mentre si comprime il peso dei ricchi, il ceto medio accumula un patrimonio significativo, soprattutto immobiliare.

Negli Stati Uniti la situazione nella prima parte del XIX° secolo era diversa: una concentrazione della ricchezza minore di quella europea, perché la terra era abbondante (la rendita fondiaria era perciò bassa) e perché chi emigrava non aveva ricchezze (nessuno nasceva ricco). Negli Stati schiavistici del Sud le cose non erano molto diverse da quelle europee. Gli Stati Uniti hanno poi registrato una concentrazione crescente della ricchezza fino agli anni Venti dello scorso secolo. Con la Grande Depressione, la concentrazione di patrimoni si è ridotta, ma molto meno che in Europa, per poi ripartire dagli anni Ottanta. Con una importante novità: la concentrazione di ricchezza è alimentata anche dagli enormi redditi da lavoro dei dirigenti delle grandi aziende. Un fenomeno che comincia a palesarsi anche in Europa.

Osserviamo ora la parte dello stock di ricchezza che ogni generazione eredita – il flusso. Nel XIX secolo il 10% di ogni generazione riceveva in eredità un reddito pari a quanto guadagnava nel corso della vita il 50% della popolazione meno abbiente. Poi si è avuto il crollo fra le due Guerre, quando solo il 2% di ogni generazione aveva un reddito ereditato pari al reddito di una vita dei meno abbienti. Negli ultimi tempi siamo tornati sopra il 10%. Se oggi si ereditano 750 mila euro, si guadagna quanto una persona con un reddito di 15 mila euro – il reddito normale della gran parte della popolazione meno abbiente - guadagna in 50 anni di vita.

C'è molta differenza fra una società di “eredità”, come quella europea di una volta, e una di “merito”, come sono (o forse erano) gli Stati Uniti: una società senza classi, perché gli individui salgono e scendono nella scala sociale in base al lavoro, che approssima il merito. Per meglio dire: le classi esistono, ma sono dei contenitori di individui sempre diversi. Se le differenze sociali fossero il segno della “volontà divina” si potrebbe forse accettare di vivere in una posizione sociale ingessata. Oggi le differenze sociali si accettano se sono differenze di merito. Perciò diventano illegittime le differenze che si formano in larga misura per eredità.

(Il modello per la meritocrazia e il risentimento è ispirato da Michael J. Sandel, The Tyranny of Merit, quello storico da Thomas Piketty, Le Capital au XXIe siécle)