I commenti delle prime ore dopo i risultati del voto del 3 e 4 ottobre sono stati pressoché unanimi. Buon risultato del Partito democratico, crollo del 5 Stelle, delusione per i pochi voti ottenuti da un centro-destra in perdita di velocità non solo rispetto ai sondaggi e alle attese, ma anche, soprattutto per la Lega, nei confronti del più recente passato.
Un giudizio altrettanto unanimemente preoccupato è stato riservato al record negativo di partecipazione, segno di un progressivo distacco e insieme delusione da una politica fatta di slogan e talk show.
Ci sono tuttavia due elementi di fondo che vanno sottolineati.
Il primo: non è stato solo un voto amministrativo sui programmi e le proposte, ma è stato anche un esame e un giudizio su quello che, proprio a livello municipale, è stato fatto negli ultimi cinque anni.
Il secondo: come ha giustamente sottolineato con un’autocritica il leader leghista Matteo Salvini, le sconfitte sono state dovute in gran parte all’identità, spesso indefinibile, dei candidati.
Paradossalmente proprio la Lega che ha messo in pratica negli ultimi anni quella che è stata chiamata una campagna elettorale permanente, ha fallito quando la campagna elettorale ha dovuto arrivare al traguardo.
Sono state quindi elezioni molto concrete, post-ideologiche potremmo dire.
Si è dato un giudizio sui sindaci uscenti, con un chiaro successo per il pragmatismo di Beppe Sala a Milano, e con una chiara sconfitta per il velleitarismo pentastellato di Virginia Raggi a Roma. A Milano gli autobus non bruciano, le buche nelle strade vengono rapidamente sistemate, i cantieri della quinta linea della metropolitana sono in piena attività e le scale mobili nelle stazioni delle altre linee funzionano senza sosta.
A Roma oltre allo scontato ballottaggio tra il centro-destra a trazione Fratelli d’Italia di Enrico Michetti e il centro-sinistra tutto Pd di Roberto Gualtieri, sono significativi l’irrilevanza della Lega e il sorpasso dell’outsider Carlo Calenda sul sindaco uscente. Dimostrando in pratica come le cose da fare e le esigenze della città sono state giudicate prevalenti rispetto alle scelte di casacca e di schieramento.
Queste elezioni, comunque, saranno importanti per gli effetti che potranno creare nei diversi partiti accentuando i processi che si erano manifestati negli ultimi mesi. Con una discriminante di fondo.
Sarà da vedere come i partiti affronteranno un tema comune, quello della scarsa partecipazione politica, insieme ai problemi specifici al proprio interno.
Perché i due piani sono strettamente legati. Non si andrà molto lontano se prevarrà una resa dei conti al vertice, soprattutto nei due partiti più delusi, cioè i 5 Stelle e la Lega. Se cioè ci si limiterà a mettere in discussione la leadership di Conte da una parte e di Salvini dall’altra, senza una rifondazione programmatica e una chiara indicazione di percorso.
Il tema di fondo è quello della formazione di una vera classe dirigente, capace di coniugare una visione della società con le risorse e gli strumenti disponibili.
I cittadini, sia gli elettori, sia chi si è volutamente astenuto, hanno bocciato i vuoti appelli al cambiamento o la protesta di chi insegue le minoranze rumorose.
Ne esce così rafforzato il Governo di Mario Draghi almeno fino a quando Lega e 5 Stelle riusciranno a tenere al loro interno il difficile processo di elaborazione della sconfitta. Mancano meno di quattro mesi all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. La scadenza che costituirà un nuovo banco di prova per la capacità dei partiti di mettere al primo posto gli interessi complessivi del Paese.
E poi, prima o poi si tornerà a votare per eleggere un nuovo Parlamento. A quel punto non basterà aggiustare le buche nelle strade, ma dimostrare di avere un progetto chiaro, sostenibile, concreto. E non solo bandierine su riforme di facciata.
Senza dimenticare tuttavia come su questa strada sarà indicativo anche il comportamento dei partiti nei due ballottaggi più importanti di metà ottobre, quelli di Roma e di Torino, dove in partenza nessun risultato appare scontato.
C’è da augurarsi che il comportamento dei contendenti non sia tale da offrire un’altra giustificazione all’astensionismo.
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