Il calo delle nascite non è più una notizia. E anche se la premier Giorgia Meloni ha solennemente affermato che «il numero delle nascite e la difesa delle famiglie è una priorità assoluta» resta il fatto che siamo di fronte (purtroppo) ad una battaglia altrettanto doverosa quanto difficile, per alcuni aspetti anche impossibile.

I tanti fattori della denatalità

Sono tante le ragioni per cui è tutta in salita la strada per contrastare i tanti fattori che stanno alla base della denatalità. Possiamo parlare di fattori economici, con la difficoltà che hanno i giovani a formare nuove famiglie per i bassi redditi e le difficoltà nel lavoro; di fattori strutturali, per la carenza di asili nido soprattutto al Sud; di fattori culturali, per la perdita di valore delle famiglie “tradizionali” e la crescita di attrazione delle famiglie “alternative” che non promuovono certo la genitorialità; di fattori emotivi, perché si è parlato per anni dei pericoli della sovrappopolazione (cinquant’anni fa venne pubblicato il famoso rapporto del club di Roma dal titolo "I limiti dello sviluppo in cui si indicava nella crescita demografica un rischio molto elevato per l’esaurimento delle risorse naturali e per la salvaguardia degli equilibri ambientali"); di fattori sociali, per la tendenza dei giovani italiani a restare in famiglia e a sposarsi tardi: il compianto ministro Tommaso Padoa-Schioppa si era permesso di chiamarli bamboccioni; senza dimenticare i fattori matematici, come vedremo, per la progressiva riduzione del numero di donne in età feconda.

Denatalità: fenomeno mondiale

Siamo peraltro di fronte ad un fenomeno mondiale. Solo l’Africa continua ad avere tassi di crescita elevata della popolazione, ma anche qui in sostanziale rallentamento. Il mondo ha superato quota 9 miliardi, supereremo i 10 miliardi, secondo le proiezioni dell’Onu, attorno al 2050, ma poi inizierà una lenta discesa perché la tendenza alla riduzione della fertilità arriverà anche in Africa che comunque passerà da poco più di un miliardo a quattro miliardi di abitanti a fine secolo. Già ora, comunque, la tendenza è di un rallentamento. Nel mondo le nascite avevano raggiunto il massimo nel 2014, con 144 milioni, ma da allora sono andate diminuendo e nel 2022 i nati sono stati “solamente” 134 milioni. L’anno scorso sono nati in Cina poco meno di 10 milioni di bambini: meno di un terzo dei trenta milioni nati nel 1963.

Quei lontani anni del baby boom

Ma torniamo all’Italia. Si pone l’attenzione sulla necessità di fare crescere l’indice di fecondità perché per impedire una continua diminuzione della popolazione sarebbe necessario tornare a quel livello di 2,1 figli per donna in età “procreativa”, una soglia che in Italia è stata superata al ribasso nel 1975. In quel periodo nascevano in Italia più di 800mila bambini all’anno dopo aver superato nel 1964, il periodo del baby boom, quota un milione.

Ebbene la flessione della fecondità si è particolarmente accentuata negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, proprio gli anni in cui sono nate le donne destinate a diventare potenzialmente madri nei primi decenni di questo secolo. Questo vuol dire che attualmente il numero di donne in età feconda è circa la metà delle loro madri nate negli anni ’50 e ’60, quelli di maggiore crescita demografica.

Indice di fecondità ai minimi

Quindi anche se la fecondità ritornasse oltre quota 2 il numero delle nascite sarebbe comunque della metà rispetto a 50/60 anni fa. Questa “trappola della maternità” non fa che amplificare l’effetto del calo dell’indice di fecondità ormai ben lontano da quota 2,1: da 1,27 figli in media per donna del 2019 si è scesi ancora di più a 1,24 del 2022 avvicinandosi al minimo storico di 1,19 figli per donna del 1995, minimo storico a cui era seguito un piccolo rimbalzo dovuto essenzialmente alla maggiore fecondità delle donne immigrate.

Ripensare la presenza degli anziani

Se quindi sono più che auspicabili politiche realistiche di sostegno alla maternità non bisogna dimenticare l’esigenza di adeguare le regole e le strutture sociali ad una dimensione in cui la componente anziana sarà sempre più rilevante. Anche perché mai come in questi primi decenni del terzo millennio il mondo del lavoro è cambiato in maniera significativa grazie alle nuove tecnologie, all’informatica, all’automazione. Gli anziani possono essere una risorsa da valorizzare superando i rigidi modelli di gestione aziendale e di pensionamento