C’era una volta (le favole cominciano tutte così) in un paese lontano una regina cattiva e permalosa che chiedeva ogni giorno allo specchio magico: «Chi è la più bella del reame?». Fino a quando lo specchio insolente non osò dire: «Biancaneve è più bella di te». Lo specchio finì in pezzi perché la verità è sempre scomoda soprattutto se riguarda le proprie ambizioni e i propri sogni.
Anche nell’elezione del Presidente della Repubblica si è consumato il dramma dello specchio. Con la politica che ha perso ogni contatto con il paese reale, che ha continuato nei giochi personalistici, che non è stata capace di superare gli schemi di una ritualità esasperata.
Il metodo dei “grandi elettori” ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. In gran parte per l’incapacità di deputati e senatori, più i rappresentanti regionali, di guardare all’interesse generale, ma in parte anche per un sistema di elezione indiretta che lascia spazio a logiche bizantine e a interpretazioni barocche. (Non è stato un bello spettacolo, per esempio, vedere persone lautamente pagate per rappresentare i cittadini astenersi dal loro diritto/dovere di voto).
L’elezione del Presidente a suffragio universale
La strada nuova, possibile, ma tutt’altro che facile, sarebbe quella di una riforma costituzionale che porti all’elezione diretta del Capo dello Stato.
Far eleggere il presidente direttamente dal popolo sarebbe una svolta molto significativa. E non per trasformare la nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale, ma per ristabilire un rapporto diretto e partecipato tra i cittadini e le istituzioni. Un presidente eletto dal popolo potrebbe mantenere gli stessi poteri attuali, poteri molto significativi soprattutto se interpretati con equilibrio e con costruttivo dialogo con il Governo e il Parlamento. Non solo arbitro super partes, ma garante della Costituzione sostanziale, quella che, a partire dagli articoli scritti nel marmo, sa leggere le circostanze e i nuovi scenari.
La prima discussione 75 anni fa alla Costituente
Il 21 gennaio del 1947 il tema era stato all’Ordine del giorno dell’Assemblea costituente dopo che il lavoro in commissione avevano lasciato aperti molti problemi. L’elezione diretta a suffragio universale, difesa a spada tratta dal liberale calabrese Roberto Lucifero, “per garantire indipendenza e serenità”, venne bocciata per non offrire eccessivo potere al presidente, un potere che avrebbe potuto mettere in secondo piano quello delle assemblee legislative. Una preoccupazione più che comprensibile a quel tempo, a pochi mesi dalla caduta del fascismo. Il più fiero oppositore all’elezione diretta fu il comunista napoletano Vincenzo La Rocca che ricordò il fallimento della Repubblica di Weimar la cui Costituzione del 1919 prevedeva non solo l’elezione a suffragio universale del Presidente, ma anche il conferimento di poteri speciali, come il varo di decreti-legge e il diretto controllo dell’esercito e delle forze di polizia. Una Costituzione che non servì a nulla di fronte all’avvento del nazismo.
Or non è più quel tempo e quell’età
Ma in questo 2022 tanta acqua è passata sotto i ponti e si potrebbe ripetere l’invito del Carducci: “Or non è più quel tempo e quell’età”. Tre quarti di secolo hanno vaccinato la Repubblica dalle tentazioni autoritarie e la dimensione europea ha reso più evidente la necessità di uno Stato con istituzioni solide e politici con forte esperienza e profonda competenza.
Dopo la Costituente di suffragio universale si era parlato alla fine degli anni ’90 con la famosa e sfortunata commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema. Il progetto di riforma prevedeva proprio l’elezione diretta da parte di tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età. Il Presidente sarebbe stato eletto per sei anni, rieleggibile solo una volta. E con un abbassamento significativo dell’età minima da cinquanta a quarant’anni. La riforma prevedeva il sistema francese con l’eventuale ballottaggio tra i due candidati che hanno conseguito il maggior numero di voti.
La Bicamerale è passata alla storia per non aver prodotto alcun risultato perché a certo punto Silvio Berlusconi decise di rovesciare il tavolo mandando all’aria una ipotesi di lavoro che avrebbe potuto diventare un esempio di unità nazionale al di sopra degli schieramenti.
I piccoli cambiamenti nella riforma Renzi-Boschi
La proposta di riforma costituzionale Renzi-Boschi, approvata definitivamente nel gennaio del 2016 e bocciata dal popolo nel dicembre dello stesso anno, non modificava invece sostanzialmente la figura e i poteri del presidente della Repubblica, ma proponeva un limitato cambiamento nella formula dell’elezione. Era sempre prevista la votazione a Camere riunite, ma data la trasformazione del Senato in assemblea delle regioni, venivano aboliti i rappresentanti regionali e cambiata la maggioranza necessaria all’elezione: dal quarto scrutinio sarebbe stata sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea, mentre dal settimo la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
La via francese nel metodo (non nei contenuti)
Ma torniamo all’oggi. Introdurre il suffragio universale per l’elezione del Presidente della Repubblica sarebbe peraltro un passo in grado di affiancare costruttivamente la riduzione del numero dei parlamentari. Perché è necessario cercare di ripristinare la fiducia dei cittadini verso la politica e rimettere in moto le cinghie di trasmissione tra le istituzioni.
Sul tavolo del Parlamento c’è una proposta di modifica costituzionale presentata nel marzo scorso da Fratelli d’Italia, una proposta tuttavia in cui si parte dall’elezione diretta del Capo dello Stato per arrivare alla Repubblica presidenziale in cui il presidente presiede il Consiglio dei ministri, con poteri di nomina e revoca dei ministri, e guida la politica generale dell’Esecutivo. In pratica il modello francese, un modello che può essere di sicura ispirazione nel metodo, lo stesso con si eleggono i sindaci delle grandi città, ma che può suscitare giustificate perplessità per il cambio radicale che si avrebbe negli equilibri tra i poteri.
Riforme costituzionali, meglio i piccoli passi
La storia insegna che le riforme troppo vaste, oltre a richiedere estenuanti discussioni parlamentari, difficilmente riescono a superare il vaglio del referendum. In pratica l’unica riforma sostanziale approvata anche dal popolo è stata quella del 2001 con la modifica del Titolo V della Costituzione, modifica che ha introdotto maggiori garanzie di autonomia alle Regioni. Una riforma fatta in fretta e furia per rispondere alla propaganda federalista della Lega. Una riforma che ha introdotto molti elementi di confusione moltiplicando i ricorsi alla Corte costituzionale.
Invece di piccole riforme costituzionali ne sono state fatte ben 45 dall’approvazione della Carta fondamentale. Piccole e doverose riforme come quella approvata nel 2003 in cui si afferma: “All'articolo 51, primo comma, della Costituzione, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Anche il precedente più vicino, quello del taglio dei parlamentari, dimostra che modifiche molto mirate e ben definite possono superare senza troppi ritardi le doppie barriere per l’approvazione.
I tempi sono maturi per una riforma che solleciti la partecipazione dei cittadini e che offra alle forze politiche una prova di responsabilità. Presentando candidati che possano sostenere la forza della democrazia e che, anche se eletti con il 50,1 % dei voti, possano rappresentare tutti per la loro statura morale e la loro passione etica per le istituzioni.
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