L'Italia resta una nazione poco attenta a favorire la diffusione e la valorizzazione della conoscenza e le differenze economiche e sociali sono ancora determinanti nell’influenzare le possibilità di studio e formazione
L’ADI (Associazione dei dottorandi e dei dottori in Italia) ha presentato alcuni mesi fa un’indagine approfondita sullo stato del dottorato in Italia. Lo studio, giunto alla sua settima edizione, è stato effettuato su 68 università pubbliche e 15 università private e offre un quadro allarmante della condizione del dottorato e, più in generale, della ricerca nel nostro Paese.
Il primo dato che si rileva è il drastico calo del numero di dottorati negli ultimi dieci anni: da 15832 nel 2007 a 9250 nel 2017. Nonostante il lieve aumento degli ultimi due anni, complessivamente si registra una diminuzione del 41,6% dei posti assegnati, come mostrato nella Figura 1.
Un secondo elemento riguarda invece la presenza di forti differenze territoriali all’interno del Paese, con la concentrazione di oltre il 40% dei dottorati presso le università del Nord Italia.
Se molte sono le differenze nazionali, ancora più forti sono le divergenze con il resto d’Europa. L’Italia è infatti penultima per il numero di dottorandi (Figura 2) e sotto la media europea per il numero di dottorati ogni 1000 abitanti. D’altronde, la scarsità degli investimenti pubblici è spesso oggetto di monito da parte della Commissione Europea, che sottolinea come la spesa nazionale destinata all’istruzione risulti tra le più basse in Europa, sia in rapporto al Pil, che in rapporto al totale della spesa pubblica, oltre ad essere costantemente in calo (Figura 3 e Figura 4).
Se la situazione dei dottori di ricerca risulta preoccupante, altrettanto grave è la condizione di chi, una volta finito il dottorato, inizia la sua “carriera” di ricercatore. La maggior parte dei dottori di ricerca, si trova infatti a dover accettare contratti precari, con salari solo leggermente più alti rispetto alla media delle borse di studio di dottorato. Sempre secondo l’indagine ADI, dei 13384 assegnisti di ricerca impiegati nel 2017, oltre il 90% sarà espulso dall’università. Eppure, tale constante emorragia di risorse umane sembra essere in contrasto con quelle che sono le necessità delle università che di fatto registrano un saldo negativo in termini di fuoriuscite del personale docente ed avrebbero quindi bisogno di sostituire almeno parte delle figure che fuoriescono.
Non solo il dottorato, ma piuttosto tutto il mondo della conoscenza in Italia presenta problemi strutturali e di non facile soluzione. Come riportato dall’ultimo Rapporto sulla conoscenza dell’Istat, il Paese ha accumulato un notevole ritardo per ciò che riguarda il livello di istruzione della sua popolazione: nel 2016 solo il 60,1% degli italiani di età compresa tra i 25 e 64 anni aveva un titolo di studio secondario contro una media europea del 76%, mentre solo il 17,7% deteneva un titolo di studio terziario contro una media europea del 30,7%.
Se da una parte tale ritardo risulta legato al livello di educazione delle coorti più anziane, è necessario sottolineare che ancora oggi il tasso di abbandono scolastico, seppur in calo, rimane superiore alla media europea (Figura 5). Nel 2016, 575 mila giovani tra i 18 e i 24 anni hanno abbandonato gli studi precocemente. Dietro tali numeri si celano, ancora una volta, profonde differenze territoriali, sociali ed economiche. Infatti, il tasso di abbandono risulta maggiore nelle regioni meridionali (18,4% contro il 10% registrato al Nord e al Centro), tra le famiglie a basso reddito, in particolare quelle con stranieri dove, secondo l’ISTAT, un ragazzo su tre non prosegue gli studi dopo il diploma.
Particolarmente svantaggiate risultano dunque le famiglie povere con stranieri residenti nel sud del paese dove il tasso di abbandono raggiunge addirittura il 44,8% (contro il 25% delle famiglie povere di soli italiani) mostrando un’acuta frattura sociale, non solo rispetto alle classi più abbienti, ma anche all’interno del gruppo sociale di appartenenza. Quali sono le ragioni che spingono i giovani italiani a non proseguire gli studi? Non c’è una risposta univoca, ma possiamo affermare con certezza che le condizioni socio-economiche e culturali familiari sembrano giocare un ruolo pressochè fondamentale, come riportato, per esempio, da Almalaurea: nel 2016, il 79% dei diplomati appartenenti a famiglie “più favorite” ha continuato gli studi a dispetto del 53% degli studenti appartenenti invece a famiglie più svantaggiate. Allo stesso tempo, il livello di istruzione dei genitori sembra essere anch’esso predittivo delle scelte dei figli, se consideriamo che l’84% dei giovani appartenenti a famiglie in cui almeno uno dei due genitori ha conseguito la laurea, ha scelto nel 2016 di proseguire gli studi e di iscriversi all’università.
Nonostante ciò, le politiche universitarie sembrano incapaci di fornire una risposta concreta che possa rendere l’università davvero accessibile. Come risulta dall’indagine Eurydice, l’Italia si colloca tra i paesi europei con i più alti costi universitari (tra i 1000 e i 3000 euro) insieme a Spagna, Irlanda, Paesi Bassi, Portogallo, Svizzera e Liechtenstein (Figura 6).
Allo stesso tempo però, è anche il Paese con una delle più basse percentuali di studenti full time beneficiari di un sostegno finanziario che tenga conto delle condizioni economiche della propria famiglia (tra lo 0,1% e il 10%).
Il quadro che emerge dalla breve disamina di questi dati risulta effettivamente inquietante. In generale, si profila l’immagine di un paese in cui le differenze economiche e sociali sono ancora determinanti nell’influenzare le possibilità di studio e formazione delle giovani generazioni e dunque, il futuro e la crescita stessa dell’intera nazione. Una nazione poco attenta a favorire la diffusione e la valorizzazione della conoscenza. A ciò va aggiunta una classe imprenditoriale a sua volta poco istruita (la maggior parte dei piccoli imprenditori detiene solo il diploma), che svolge in media poca attività formativa per i dipendenti e spende in R&S meno dello 0,8% del PIL (dati 2015, fonte ISTAT), ben al di sotto della media europea dell’1,3% e persino inferiore ai valori registrati in Slovenia, Repubblica Ceca ed Ungheria.
Di tutti questi aspetti, dovrebbe tener conto una classe politica intenzionata realmente a promuovere lo sviluppo del paese.
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