Il 1° giugno avevo scritto questo articolo sulla crisi, aspettando che arrivasse dalla Grecia in Italia. Era un «coccodrillo». Lo ripropongo tale e quale.

Col mutamento del clima politico, ecco che si torna a discutere del debito pubblico. Esponiamo tre percorsi, quello apocalittico dell’oggi, quello apocalittico degli anni Novanta, quello sobrio dell’oggi.

Il percorso apocalittico come potrebbe presentarsi oggi

Il debito pubblico italiano è voluminoso, mentre l’economia cresce poco. Ergo, non ci vuole poi molto per farlo deragliare. Il deficit pubblico può aumentare, perché si hanno nuove spese, mentre si riducono le imposte. Il maggior deficit pubblico allora alimenta il debito, e tosto i mercati finanziari richiedono rendimenti maggiori per sottoscrivere il maggior debito. Aumenta il costo del debito che alimenta il deficit, che a sua volta alimenta il debito, in una spirale che può diventare pericolosa. Infine, il lato internazionale: il debito italiano è detenuto in misura notevole dal sistema finanziario europeo (un multiplo di quanto il sistema europeo detenga quello greco). Potrebbe sorgere una vera crisi, che metterebbe questa volta per davvero in discussione l’euro.

Il percorso apocalittico trae la propria spinta dal sistema politico che non controlla più le cose. Il sistema politico – ormai in crisi – non è in grado di imporsi alle spinte e controspinte e perciò si fa trascinare da tutti i litiganti. Ci sono alcuni partiti che vogliono più spesa pubblica per alimentare le proprie clientele. Altri partiti vogliono ridurre il carico d’imposta, sempre per alimentare le proprie clientele. Il risultato è che non si controlla il deficit pubblico, e, in caso di crisi, non si riescono a imporre nemmeno le «manovre di correzione». Ognuno dice la sua: è meglio il maggioritario, è meglio il proporzionale con la soglia di esclusione, eccetera. Ma il rischio incombe.

Da qui i titoli cubitali: l’avida finanza attacca la nostra sovranità.

Come gli apocalittici furono presi in contropiede negli anni Novanta

Siamo negli anni Novanta. Già con l’ultimo governo Andreotti, il bilancio pubblico era in avanzo prima del pagamento degli interessi. Ossia, le uscite pubbliche erano inferiori alle entrate. In termini tecnici: si aveva un avanzo primario positivo. Un mini-passaggio tecnico prima di arrivare al bello. Si immagini di avere un debito con la banca di 100 euro che costa il 10%. Se si spende meno di quel che si guadagna, ossia se si ha un avanzo primario positivo, poniamo di 10 euro, si riduce il debito di 10 euro con la banca, cui si debbono pagare gli interessi sul debito, che però si riducono a 9 euro ((100-10)x10%). Al giro successivo, il risparmio è ancora di 10 euro, ma ora si hanno solo 8 euro di interessi da pagare ((100-10-10)x10%). A ogni giro si pagano meno interessi, perché si risparmia.

Ed eccoci al bello. Accelero il mio risanamento, se pago un tasso di interesse decrescente sul debito. Se invece di pagare il 10% arrivo a pagare il 5%, risano la mia condizione finanziaria molto più in fretta. Si dice che i mercati finanziari anticipino il futuro, ossia che si muovano sulle «aspettative». Ergo, li si può giocare mostrandosi racchie, sapendo che si può essere principesse. Nino Andreatta lo disse nientemeno che alla televisione nel 1996: «Mostreremo dei numeri peggiori di quelli ottenibili». Si fa così: si dichiara che il risparmio sarà di 10 euro e, invece, si arriva a 11. Si dice che sarà di 11 e, invece, si arriva a 12. Il mercato, vedendo che basa i prezzi delle obbligazioni su uno scenario troppo pessimista, porta il tasso di interesse dal 10% al 9%, poi all’8% e così via. Insomma il risanamento procede a passo accelerato, perché si riduce l’onere del debito.

Da qui i titoli cubitali di allora: premiati i sacrifici, il Belpaese è finalmente nell’euro.

Lo scenario dell’oggi con cinque variabili

Il debito pubblico italiano è quasi sempre giudicato mettendo in relazione due variabili: il debito, che è cospicuo, e la crescita, che è modesta. Ne viene fuori un giudizio di insostenibilità, o comunque di grande rischio. Se, invece, il debito pubblico non è giudicato con due variabili, ma con cinque, il giudizio muta, perché il debito pubblico diventa, con qualche sacrificio, sostenibile. Un giudizio più articolato analizza, oltre al debito e alla crescita, anche la scadenza media del debito, il suo costo, il saldo del bilancio pubblico prima del pagamento degli interessi .

Nel caso italiano: 1) il debito pubblico è certamente voluminoso, perché è superiore al Pil; 2) è lungo, ossia non scade subito, in media scade in circa sette anni; 3) è costoso, ma, a differenza del passato, non è più costosissimo – prima dell’ingresso nell’euro gli interessi sul debito erano, infatti, pari al 10% del Pil, mentre oggi siamo al 5%; 4) il saldo primario è leggermente positivo senza gli effetti della crisi, ed è leggermente negativo se li si include; 5) infine, il tasso di crescita dell’economia è piuttosto modesto.

Due conti (1). Con un debito (lordo, quello netto, che tiene conto anche delle attività di proprietà pubblica, è intorno al 90% del Pil) pari al 120% del Pil, e supponendo che il costo del debito cresca del 50%, passando istantaneamente dal 4 al 6%, come se le scadenze del debito venuto a maturazione fossero di pochi mesi e non di molti anni, e con un tasso di crescita pari al 3% (1% reale e 2% d’inflazione), la manovra richiesta (il saldo primario) per non far crescere il debito pubblico – ossia per tenerlo dov’è, al 120% – è pari a circa il 3,5% del Pil.

Il saldo primario italiano oggi si aggira intorno allo 0%, e dunque non è così difficile mettere sotto controllo il debito, portandolo al 3,5%. La manovra richiesta in caso di crisi grave è, esagerando – scriviamo «esagerando» perché supponiamo che il costo del debito cresca all’istante del 50% quando va in scadenza in media in sette anni e pesi sul debito lordo e non su quello netto – intorno ai 50 miliardi di euro, che sono all’incirca il 3,5% del Pil.

Non è poco, ma non abbiamo nemmeno lontanamente a che fare con manovre di tipo greco, che, per la stabilizzazione del debito, richiedono variazioni nell’ordine del 10% del Pil. La conclusione è che la «soglia critica» del debito pubblico italiano è fortunatamente ancora molto alta. Insomma, basta che il sistema politico si comporti decentemente.

Titoli cubitali di domani: seppur senza arcangeli e semidei, ce l’abbiamo fatta.

(1) L'equazione che mostra le condizioni per avere un debito pubblico che non cresce in rapporto al Pil è: s = ((r–g)/(1+g))*d. Se il costo nominale del debito è pari al 6% (espresso con r) e la crescita nominale del Pil è pari al 3% (espressa con g) e il debito pubblico è pari al 120% del Pil (espressa con d), il saldo primario (espresso con s) deve essere positivo (ossia le spese sono inferiori alle entrate) e pari al 3,5% del Pil.

Pubblicato successivamente sull'Inkiesta:

http://www.linkiesta.it/blogs/economista-greco/coccodrillo-sulla-crisi-finanziaria