Mondo Economico ha chiesto a Edoardo Greppi - uno dei più autorevoli esperti italiani di Diritto Internazionale, disciplina che insegna all’Università di Torino, e docente d’International Institutional Law e di Diritto internazionale umanitario - di fare il punto su alcuni dei principali problemi mondiali di attualità e sulle prospettive dell’Unione europea. Ecco cosa ci ha risposto.

Partiamo dai diritti umani: che bilancio possiamo trarre, oggi, circa il loro rispetto, in un mondo tanto travagliato da guerre e così poco incline alla loro difesa?

La situazione non è incoraggiante. Alla radice del problema c’è la pretesa degli stati di esercitare la loro giurisdizione in forma totale e senza ingerenze esterne, da parte sia di altri stati sia delle varie organizzazioni internazionali. Un limite enorme è tuttora costituito dalla pretesa di una riserva assoluta d’intervento, quella che Luigi Einaudi chiamò “l’idolo immondo della sovranità nazionale”, perché la necessità di far rispettare tali diritti si scontra fatalmente con l’esigenza d’intromettersi negli affari interni degli stati. A partire dalla Dichiarazione Universale delle Nazioni Unite del 1948, sono state varate molte convenzioni in materia, dalla tutela dei bambini, delle donne e dei migranti al divieto della tortura e d’infliggere pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Ma, di fatto, la questione è lasciata alla volontà statuale spontanea. Resta soprattutto insoluto il problema delle sanzioni contro il mancato rispetto di tali diritti: non c’è un’autorità superiore al livello statuale che abbia poteri coercitivi per far rispettare le norme in oggetto e quindi ci si affida al rispetto volontario dei singoli stati.

Ci sono margini di ottimismo sulla possibilità che gli stati sovrani possano cedere parte della loro sovranità a questo fine?

La comunità internazionale è una società di stati che per tradizione viene definita come inorganica, cioè priva di organi, in particolare di un organo che “governi” l’insieme dei quasi 200 stati e di un giudice che ne regoli la condotta. Essa è organizzata su un piano orizzontale, senza poteri cogenti superiori. Il rispetto dei diritti umani è quindi affidato all’azione spontanea degli stati, ma chi infrange tali diritti resta impunito per la virtuale incapacità a sanzionare le violazioni. C’è una generale volontà a non sottoporsi a poteri superiori.

C’è qualche eccezione a questa situazione?

Sì, l’Unione europea, dove i paesi membri hanno accettato fin dalle origini di cedere parte della loro sovranità a un potere superiore, con l’alta autorità che reggeva la Ceca (Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio) e il progetto della Ced, la Comunità Europea di Difesa, sfortunatamente caduto nel 1954.

Anche l’Unione europea, tuttavia, da tempo non attraversa un periodo molto favorevole: da almeno un trentennio il processo d’integrazione sembra essersi pressoché arrestato…

Purtroppo siamo passati da un progetto di stampo federale a uno di tipo funzionalistico e le contraddizioni di questo passaggio le stiamo scontando ora: l’integrazione economica e finanziaria europea si può dire sostanzialmente realizzata, ma quella di tipo politico segna il passo ormai da tempo, forse proprio a causa del fallimento originario della Ced. Infatti, di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, l’Europa si è scoperta priva di strumenti politici e militari adeguati a farvi fronte. Le recenti proposte di Mario Draghi per rafforzare la competitività europea nascono proprio da un vuoto politico che in 70 anni non è stato colmato.

Un problema di fondo irrisolto mi pare sia costituito dal meccanismo decisionale adottato dalla UE, tuttora basato sull’unanimità del consenso su quasi tutti i principali problemi sul tappeto. Ma se era relativamente semplice raggiungere accordi tra i sei paesi fondatori, farlo oggi in un’Unione a 27 è un’impresa improba, anche perché molti dei nuovi aderenti dell’Est europeo provengono da tradizioni ed esperienze storico-politiche radicalmente differenti da quelle euro-occidentali…

Sono d’accordo. Il problema, paradossalmente, è che il successo iniziale dell’integrazione ha determinato un’accelerazione delle domande di adesione di quasi tutti i Paesi euro-occidentali ma, dopo la caduta del muro di Berlino, anche di quelli appartenenti al mondo ex-sovietico, che certo pronti non erano. Ė stato un errore non aver rafforzato prima le regole normative. Il vulnus principale, infatti, è giunto dalla mancata ratifica del Trattato costituzionale europeo da parte di Francia e Olanda nel 2005, cosa che ha privato l’Unione del principale strumento giuridico nel cui ambito l’allargamento successivo ai nuovi membri dell’Est si sarebbe dovuto realizzare. Ė come se un’associazione accetti l’ingresso di nuovi soci senza aver concordato con essi le regole di ammissione e di comportamento. Se vuole riprendere il processo di unificazione, l’Unione non può ormai eludere una risposta a questa domanda cruciale: l’appartenenza all’Unione è una mera forma di cooperazione inter-governativa, dove prevalgono gli interessi individuali dei singoli stati e questi hanno un potere d’interdizione pressoché totale? Oppure occorre tornare all’idea originaria di un processo decisionale a maggioranza?

Fonte: two-worlds.com

Perché si è giunti a una situazione così paralizzante?

Direi che occorre tornare ai fondamenti su cui sono state create le organizzazioni internazionali del dopoguerra. Il primo dei sette principi fondamentali su cui sono fondate le Nazioni Unite afferma che l’organizzazione si basa sul criterio della sovrana eguaglianza dei membri. E qui siamo alla pura finzione giuridica, poiché nessuno pensa realmente che la Cina abbia la stessa importanza di San Marino o che gli Stati Uniti siano paragonabili alle isole Seychelles: eppure ciascuno di questi paesi ha formalmente lo stesso peso. Perciò, non stupiamoci se poi le organizzazioni internazionali non funzionano a dovere. Finché il moloch della sovranità assoluta dello stato non sarà abbattuto, la maggior parte dei problemi che affliggono la convivenza internazionale (rispetto dell’ambiente, regolazione dei flussi migratori, de-globalizzazione economica, terrorismo, guerre) resterà irrisolta.

L’origine di queste difficoltà mi sembra che risalga in gran parte alla sopravvivenza di concezioni dei rapporti internazionali ereditate dal primo ‘900, basate su un autoritarismo ottuso che fa delle barriere statuali e dell’“idolo immondo” della sovranità - come lei ha ricordato citando Einaudi - un ostacolo ormai inaccettabile alla libera circolazione di idee, uomini e merci che costituisce il fondamento dell’odierna convivenza globale…

Abbiamo pensato, almeno qui in Europa, di esserci gettati alle spalle il timore di nuovi conflitti sul tipo di quelli che hanno afflitto l’800 e il ‘900 e invece una guerra di aggressione sta sconvolgendo tutto il continente. Direi che l’Europa sta rivelando una profonda carenza di ordine politico: se guardiamo alle fotografie storiche dei “padri fondatori” dell’Europa, non possiamo che provare un profondo rimpianto per la loro grandezza politica. Come disse il teologo americano James Freeman Clarke, in una citazione poi ripresa da Alcide De Gasperi, “oggi abbiamo una pletora di politici che pensano alle prossime elezioni, ma non abbiamo più statisti che pensino alle prossime generazioni”. Alla vigilia delle elezioni europee mi pare di vedere una forte mancanza di progetti politici di ampio respiro, mentre prevale largamente il tatticismo elettorale. Un esempio, pessimo, è la presentazione nelle liste di candidati-bandiera che non potrebbero essere eletti ricoprendo ruoli nazionali incompatibili con l’eventuale mandato europeo ricevuto.

Lei ha accennato, in precedenza, a varie disfunzioni dell’attuale sistema internazionale. Ritiene che le proposte di cambiamento, che i paesi del cosiddetto “Sud Globale” stanno avanzando negli ultimi tempi per riformare organismi e istituzioni giudicati troppo ossequiosi verso gli interessi occidentali, siano credibili o invece soffrano ancora di un certo velleitarismo?

L’attuale sistema internazionale è il frutto di un grande compromesso, scaturito dalla Conferenza di San Francisco del 1945 dopo un conflitto planetario, come furono quelli nati con la pace di Vestfalia o il Congresso di Vienna o, ancora, la Conferenza di Versailles. Ė vero che l’articolo 2, paragrafo 1 della Carta dell’Onu prevede che “L’Organizzazione è fondata sul principio della sovrana eguaglianza di tutti i suoi membri”, ma è chiaro, come abbiamo già ricordato, che si tratta di una finzione giuridica e il potere effettivo è nelle mani del direttorio delle 5 potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale che controlla il Consiglio di Sicurezza. Se ci chiediamo se l’ordine attuale è quello di 80 anni fa, la risposta è evidentemente negativa. Ė chiaro che siamo dinnanzi a un ricambio vorticoso di potenze che hanno una sempre maggiore influenza globale (pensiamo solo all’India) senza avere un’adeguata rappresentanza, mentre altre sono in evidente declino, come Francia e Gran Bretagna, ma mantengono uno status superiore al loro peso effettivo. Di fronte a tutto questo – e in particolare alla prosecuzione di due conflitti gravissimi come quello russo-ucraino e quello israelo-palestinese – l’Onu si rivela ancora una volta impotente.
Ma neppure l’Europa riesce a incidere gran che. Alcune settimane or sono Romano Prodi ha rilasciato un’intervista al “Corriere delle Sera” in cui sosteneva che, se l’Europa avesse avuto un esercito comune, Putin non avrebbe mai attaccato l’Ucraina: è un’idea che condivido in pieno. E questa mancanza è un peccato perché mina le potenzialità dell’Unione, che restano formidabili in campo economico, finanziario, tecnologico ma anche strategico. Sul piano politico, tuttavia, resta un nano a tutti gli effetti e di questo Pechino, Mosca e Washington continuano a rallegrarsi.

Dal conflitto russo-ucraino si può uscire organizzando un nuovo Congresso di Vienna, che promuova una soluzione negoziata in cui tutti i protagonisti – vinti e vincitori – partecipino su un piano di eguaglianza?

Forse. Come accade dopo ogni conflitto, è chiaro che a un accordo, probabilmente di compromesso, che guardi al futuro del continente, prima o poi occorrerà giungere. Ma anche qui la politica e la diplomazia mi sembrano in ritardo. Inoltre Putin mi pare poco interessato, almeno per ora, a cercare un accordo perché ha creato un sistema politico-economico basato su un’economia di guerra che non può chiudere il conflitto da un giorno all’altro.

Il fatto che, malgrado la denuncia di entrambe le parti dei trattati di controllo e riduzione degli armamenti, Russia e Stati Uniti continuino di fatto a rispettarne le disposizioni può costituire il punto di partenza, quando la guerra sarà finita, per una ripresa dei negoziati bilaterali che eviti una nuova Guerra Fredda?

Sicuramente. Ricordo che nel suo memorabile discorso d’insediamento alla presidenza, nel gennaio 1961, il presidente americano John Kennedy disse: “Noi non negozieremo mai per paura, ma non avremo mai paura di negoziare”. Ciò accadde durante una fase di durissima contrapposizione tra Est e Ovest, che due anni dopo avrebbe portato alla crisi dei missili di Cuba. Quella frase mi pare una buona base di partenza da cui Mosca e Washington possano riprendere a parlarsi.

 

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