Da ieri, giovedì 6 giugno (i primi ad andare al seggio sono stati i cittadini olandesi), si sono aperte le urne per il Parlamento europeo, che si chiuderanno la sera di domenica 9 giugno, quando comincerà anche lo scrutinio. In un articolo precedente, abbiamo fatto il punto sulle previsioni del risultato del voto che si possono fare sulla base dei sondaggi. In sintesi: la tenuta di Popolari, Socialisti e Sinistra, la sconfitta di Liberali e Verdi, la crescita delle due formazioni di destra ECR e ID – quest’ultima, peraltro, penalizzata dal fatto di avere espulso alla fine di maggio il partito tedesco AfD -  e un netto aumento della frammentazione, ossia dei partiti non affiliati ad alcun gruppo (nella figura mostriamo una delle proiezioni in circolazione; ce ne sono altre, ma la sostanza non cambia molto).

Terremoto? No, bradisismo

Proiezione in seggi del voto per i Gruppi dell’Europarlamento in blu, consistenza attuale dei Gruppi in nero. Fonte: Bloomberg su dati EuropeElects

Quali previsioni invece si possono fare sul piano politico, in termini di futuri equilibri all’interno delle istituzioni comunitarie, se le cose dovessero andare come sembra oggi probabile? Anche qui, non un terremoto, ma il bradisismo molto probabilmente sì (il bradisismo qualche problema lo provoca, chiedere a Pozzuoli). Cerchiamo di capire perché, tenendo presente che all’interno delle istituzioni comunitarie il peso principale, al momento delle decisioni, lo hanno gli Stati, ossia il Consiglio Europeo dei Capi di Stato e di Governo.

Dopo le elezioni, la prima decisione che il Consiglio dovrà prendere – a maggioranza qualificata, ossia con il 55 per cento dei paesi che rappresentino almeno il 65 per cento della popolazione totale dell’Ue – sarà la designazione del/della Presidente della Commissione, che per entrare in carica dovrà poi essere votato/a dalla maggioranza assoluta dell’Europarlamento.

A quel punto il Presidente formerà la Commissione sulla base delle indicazioni degli Stati membri: un commissario per ogni Stato membro, 27 in tutto compreso il Presidente, sottoponibili prima della conferma a un’audizione in Parlamento (nel 2004 Berlusconi dovette ritirare la proposta di nominare Rocco Buttiglione come Commissario, in seguito proprio all’esito dell’audizione).  Il Parlamento voterà poi sulla Commissione, e perché la Commissione entri in carica occorre la maggioranza assoluta dei sì. La scelta del Presidente e la distribuzione delle competenze fra i Commissari devono necessariamente tenere conto di equilibri politici e di equilibri territoriali (Europa del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest, Stati grandi e stati piccoli, eccetera). Sempre a maggioranza qualificata, il Consiglio Europeo nominerà anche il proprio Presidente (di solito, un ex Presidente del Consiglio di uno degli Stati membri: in questo momento è il belga Charles Michel).

Tutto questo risultava più semplice quando in Parlamento e nel Consiglio esisteva – com’è esistita almeno fino al 2014 – una sorta di super-maggioranza informale: era quella composta da Popolari, Socialisti e Liberali, ed era abbastanza ampia da potersi permettere defezioni anche significative su specifiche nomine o su particolari politiche. Già nel 2019 l’elezione di Von der Leyen, frutto di questo tipo di accordo, passò di stretta misura (9 voti, a fronte di una maggioranza potenziale di circa 60) e solo con il “soccorso”, fra gli altri, dei 5Stelle italiani. Quanto alle scelte sulle politiche, le maggioranze recentemente sono state decisamente “variabili”: un esempio per tutti le ambiziose politiche sul cambiamento climatico, approvate in Parlamento con i Verdi e parzialmente ritrattate a fine legislatura con il voto di parte delle destre. Nella nuova legislatura, è prevedibile che i giochi saranno anche più aperti.

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Quanto conterà la “voglia di Europa” l'8 e 9 giugno?

È chiaro che, in questa partita, ha migliori chance di successo già al primo livello – quello dei Capi di Stati e di Governo – chi, oltre a rappresentare uno Stato importante, ha anche dietro delegazioni parlamentari “pesanti” all’interno dei gruppi a cui sono affiliate. Il 10 giugno – limitandosi ai 5 Stati più grandi (Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia) e guardando ai sondaggi elettorali – dovrebbero trovarsi in questa posizione solo il premier polacco Donald Tusk (popolare), quello spagnolo Pedro Sanchez (socialista) e l’italiana Giorgia Meloni (gruppo Ecr, fuori dalla “super-maggioranza” storica europea). Quanto ai due partner maggiori dell’Unione, Germania e Francia, hanno entrambi esecutivi in crisi: in Germania, la coalizione socialisti-verdi-liberali guidata dal Cancelliere Olaf Scholz riscuote il 34 per cento dei consensi, contro il 30 dei popolari della CDU-CSU e con AfD al 16 per cento, alla pari con i socialisti; in Francia, il partito liberale del Presidente Emmanuel Macron, al 15 per cento, risulterebbe più che doppiato dal Rassemblement National di Marine Le Pen, al 33 per cento. L’asse portante della costruzione europea – quello franco-tedesco – sarà certamente più debole dopo il 10 giugno.

Nella stampa internazionale – non solo in quella italiana – questa situazione complicata viene riassunta utilizzando due chiavi di lettura. La prima, evidentemente, è quella dell’avanzata travolgente (?) dei partiti di destra; la seconda – evocativa – potremmo chiamarla quella delle “donne fatali” (vedi, fra gli altri, la copertina di The Economist del 1° giugno e un articolo del Financial Times del 4 giugno).

Le “donne fatali” d’Europa

 

Le tre belle signore, tuttavia, hanno ciascuna problemi non da poco:

  • Ursula von der Leyen, come abbiamo detto, è stata eletta per il rotto della cuffia cinque anni fa: questa volta incontrerebbe probabilmente difficoltà anche maggiori, considerato che la somma di Popolari, Socialisti e Liberali godrebbe nel nuovo Parlamento di una maggioranza sicuramente ridotta rispetto al 2019 e che Socialisti e Liberali si dichiarano indisponibili a un “allargamento a destra” – verso, per esempio, l’ECR in cui sta Meloni ma anche i polacchi di PIS;
  • Marine Le Pen al momento – e nonostante l’espulsione dell’AfD tedesca dal gruppo ID (Identità e Democrazia) decisa quindici giorni prima del voto – risulta completamente isolata (in compagnia, si fa per dire, della Lega di Salvini), soprattutto a causa dei persistenti dubbi sui legami con Putin (il Rassemblement National ha annunciato a settembre 2023 di avere interamente ripagato il prestito di 6 milioni di euro ricevuto da una banca russa che lo aveva tenuto a galla nel 2014);
  • Giorgia Meloni, infine, rischia di pagare il fatto di avere ostentatamente “snobbato” a livello europeo i governi percepiti come schierati politicamente in campo avverso, in particolare la Francia di Macron, la Spagna di Sanchez, contro cui ha continuato a fare campagna elettorale, e la Polonia di Tusk, dopo le elezioni dell’autunno scorso (fra parentesi: i sondaggi danno oggi alla sua coalizione di governo esattamente 2 punti in più rispetto alle elezioni del 2022: 45 per cento contro 43 per cento, non proprio un successo travolgente dopo più di un anno e mezzo di governo).

Sarà davvero l’Europa delle donne fatali? O non, piuttosto, quella dei tessitori (o tessitrici, ovviamente)? Per paradosso, negli anni complicati che stiamo vivendo – la guerra, la crisi del clima, il declino demografico, l’immigrazione, la crescita stentata, la polarizzazione degli elettorati… – la costruzione barocca delle istituzioni europee (Giuliano Amato, memorabilmente, definì l’Ue un “ircocervo”) potrebbe rappresentare un punto di forza e non di debolezza. La percezione di rischi condivisi, accompagnata alla necessità di cercare il consenso per arrivare a una risposta comune, giocherà però a favore di leader – donne o uomini – capaci di tessere e di costruire, non solo di distruggere. E, secondo un vecchio detto, “chi avrà più filo tesserà più tela”. Vale per gli uomini grigi, vale anche per le donne fatali. Nel dopo elezioni, il consenso potrebbe essere cercato – e trovato – su geometrie differenti e su leader diversi da quelli di oggi.