Un appello alla Bce («basta aumenti dei tassi, siamo al limite») e un timore molto forte («sarà guerra entro tempi medi, diciamo cinque anni tra Stati Uniti e Cina»). Con un occhio benevole per il tessuto imprenditoriale italiano, sempre vivo e vegeto, e un appello al governo («tagliare le spese, questa sarebbe la strada»). Alberto Forchielli - imprenditore e opinionista italiano esperto di affari internazionali (con particolare focus su Asia, Stati Uniti e  Germania), consulente di multinazionali, imprese statali e della Banca Mondiale, nonché fondatore di Mindful Capital partners, una società di private equity – dal suo buen retiro estivo di Imola (il resto dell’anno fa base a Boston dopo aver deciso di lasciare l’Asia) ragiona sul futuro dell’economia mondiale e sul ruolo dell’Italia e del suo mondo produttivo.

I rapporti tra Usa e Cina sono al minimo storico. Come se ne esce?

«Temo con una guerra per la riunificazione con Taiwan entro un periodo medio che io stimo intorno ai 5 anni. I rapporti sono davvero messi male e basti pensare che l’84% degli americani guarda con disprezzo la Cina e l’unica cosa su cui tutta la popolazione è d’accordo è ‘bastonare’ la Cina».

Però non mancano alcuni segnali di distensione, tipo le visite nel paese del Dragone del segretario di Stato Antony Blinken…

«Puntualmente seguite da un duro attacco del presidente Biden. Il fatto è che in America a livello politico si confrontano due tesi sulla Cina: la linea dura e la linea che invece cerca il compromesso per non arrivare al peggio, cioè alla guerra, e salvare la sicurezza nazionale. Tutti, però, sono molto spaventati dal rischio di “incidenti” militari, tipo quello dello scorso 5 agosto quando un’imbarcazione della Guardia Costiera Cinese ha sparato con un cannone ad acqua ad una nave di rifornimenti e vettovaglie Filippina, diretta presso la nave spiaggiata Sierra Madre, nei dintorni dell’atollo di Second Thomas Shoal nel Mar Cinese Meridionale.   Il tutto acuito dal fatto che i militari cinesi e americani non si parlano più e questo è un grave pericolo».

E si stanno preparando alla guerra…

«La Cina lo sta facendo da anni. Tutta l’attenzione di Xi è focalizzata sulla sicurezza e il leader vuole passare alla storia come quello che ha riunificato la Cina. E per fare questo temo davvero la guerra».

L'imprenditore Alberto Forchielli, classe 1955, si divide tra Imola e Boston

Lei è venuto via dalla Cina dopo la lunga esperienza di Mandarin Capital partners ed è stato uno dei primi a credere nelle potenzialità dell’economia cinese. Cosa è cambiato?

«Mi sono stufato. Investire in Cina è diventato impossibile perché di fatto non ci vogliono più. E allora ho deciso di tornare alla vecchia Europa, e in particolare in Italia, dove la manifattura è ancora attività e in buona salute. Investo in manifattura, non in hi-tech. Attualmente abbiano 10 partecipazioni per un controvalore totale vicino al miliardo».

Dove investe, in particolare, Mindful Capital partners?

«Ci sono tante belle aziende, in Europa e soprattutto in Italia, nei settori della farmaceutica, dell’alimentare e della meccanica».

Il problema delle aziende, e non solo, adesso è quello dei tassi. Come se ne esce?

«Fermando la salita dei tassi. Adesso basta! L’inflazione farà la sua corsa e poi scenderà ma aumentare ulteriormente i tassi significherebbe strangolare le imprese e le famiglie. La Bce si è svegliata tardi e doveva intervenire prima. Del resto, ora, l’economia cinese è a pezzi e i consumi energetici stanno calando così come i prezzi. I tassi bassi in Cina sono un segnale inequivocabile».

Intanto gli investitori escono dall’azionario cinese con deflussi per oltre 11 miliardi. Cosa significa?

«Che la crisi della Cina è forte. Le relazioni internazionali sempre più tese con gli Stati Uniti e la minaccia che un passo ostile nella politica estera cinese possono far scattare sanzioni economiche su Pechino e questo costituisce un rischio per chi, oggi, vuole fare affari con la Cina. Se avessi un'azienda, in questo momento, vorrei che fosse la meno Cina-dipendente possibile».

Se l’Italia uscisse dalla Via della Seta la pagherebbe cara?

«Sostanzialmente sono blocchi dalle importazioni, dazi temporanei, oppure senza dire niente blocchi e ritardi alla dogana. Senza provvedimenti, azioni non giuridiche ma di fatto. Nel caso delle Filippine, la dogana non processava le banane e le banane marcivano nei porti. Ma io non credo che le farà perché lancerebbe un messaggio molto negativo: direbbe che l'adesione alla Via della seta è un cappio d'acciaio, da cui non si può più uscire senza pesanti ritorsioni. Un brutto messaggio da lanciare a chi già ne fa parte»

Come giudica la politica economica del governo Meloni?

«Per le misure di breve periodo, ad esempio quelle contenute nella legge di bilancio per il 2023, il governo Meloni si è mantenuto nel solco del predecessore. Pertanto ha evitato di battere i proverbiali pugni sul tavolo a Bruxelles e ha rinnegato tutte le promesse farneticanti gettate in pasto all'opinione pubblica durante la campagna elettorale. Tuttavia gradualmente sta emergendo una strategia volta a cambiare con maggiore incisività l'economia italiana. In primo luogo nella politica fiscale e poi nel mercato del lavoro. Ma per ridurre le tasse bisogna ridurre le spese. E da quest'orecchio il governo non sembra avere un timpano che funzioni alla perfezione. Anzi le difese corporative di tassisti e balneari lasciano presagire un modello di sviluppo che era già obsoleto negli anni '90. La vera partita è sul patto di stabilità. Le incertezze sulla riforma del Patto di stabilità e crescita non aiutano ad ancorare le aspettative future, e gli effetti degli alti tassi di interesse sui debiti pubblici aleggiano come un convitato di pietra ai piani alti dell’Eurotower».

Quali sono le prospettive dell’Italia?

«Negative sotto tanti profili. Bassa natalità, alto debito, criminalità economica in forte aumento. Ma c’è dall’altra parte il fatto che le imprese riescono ad esportare per 600 miliardi l’anno e quindi sono loro a tenere a galla il Paese. Ma sa qual è il vero problema?»

Dica…

«Che io, da vecchio, torno in Italia e i giovani partono. Non ho famiglia di amici che non abbia almeno un figlio all’estero. I migliori vanno via attratti da stipendi che sono il triplo. Con stipendi da fame i giovani se ne vanno, non c’è niente da fare. E dopo il danno la beffa: spendiamo per formare chi poi porta le sue capacità all’estero».