Negli ultimi giorni si discute di riforma del patto di stabilità. È stato fortemente criticato per la regola aritmetica del 3% di deficit massimo sul Pil. Rigida e assai inosservata, non avrebbe permesso di finanziare il bilancio pubblico durante la pandemia, ragione per cui è stato sospeso. E adesso si parla di reintrodurlo, rivedendolo.

La questione è di ordine pratico. Il 3% era un target virtuoso se l’inflazione era sotto controllo (ossia sotto il 2%). Con l’inflazione al 2% (ossia con il Pil che cresce di 2 punti solo perché sono cambiati i prezzi, ceteris paribus), basta una crescita reale e/o della produttività media di 1 punto all’anno perché il deficit del 3% non peggiori – ossia stabilizzi – il quoziente tra debito e Pil.

La prima condizione aritmeticamente cambiata è che l’inflazione non tornerà sotto il 2% per un bel po’, se mai ci tornerà, perché alcune scarsità dal lato dell’offerta (mancanza dei profili professionali nuovi e mancanza di beni intermedi critici che hanno un ciclo di investimento pluriennale, come i chip) potrebbero impedire il ritorno al 2, per assestarci tra il 3 e 4. Per intanto siamo al 7% nell’eurozona e all’8,3% in Italia. Sempre in Italia, l’inflazione core (ossia al netto dei prodotti alimentari ed energetici, affetti da volatilità e stagionalità) è al 6,3%. Inoltre quella acquisita a marzo (ossia finale media del 2023, se gli indici mensili non variassero più, ossia se il livello dei prezzi si congelasse) è del 5,4% (core 4,6%). Non c’è niente da fare, il rientro al 2% è fuori bersaglio nel 2023 in termini matematici (un po’ come lo scudetto del Napoli), e probabilmente non ci saremo neppure nel 2024. Ma nel 2024 dovremmo già avere un’altra regola da rispettare per la stabilità finanziaria del bilancio pubblico, e dunque ben venga la riforma.

La seconda ragione che sta ispirando il cambiamento è che i deficit del 2021 e del 2022 sono peggiori della soglia del 3% per la maggior parte dei Paesi (la media dell’eurozona nel 2022 è stata -3,6%), e gli scostamenti maggiori riguardano tre paesi  “grandi” come Francia (-4,7%), Spagna (-4,8%) e Italia (-8%). Rispetta il 3% solo la Germania. Troppo poco.

Tirando le somme, il 3% non è più realistico in ragione dell’inflazione e perché molti grandi non sarebbero in grado di rispettarlo. A questo si aggiunge la riserva teorica sulla disutilità di un deficit piccolo, riemersa dacché i deficit finanziati indirettamente dalla Bce hanno salvato le economie dalla recessione pandemica.

Ad ogni modo, prima che la proposta di revisione divenisse un documento della Commissione, si è molto discusso sul numero da considerare come limite del deficit e alla fine si è presa la decisione (corretta a nostro avviso) di non focalizzarsi eccessivamente sul numero, ma di far pesare di più il processo di adeguamento per arrivarci.

La Commissione ha quindi confermato il target finale del 3% (che in futuro potrebbe cadere, ma terrà fino a che il target di inflazione resisterà a 2), tuttavia si richiederà ai Paesi più indebitati di entrare in un piano di aggiustamento, supervisionato dalla Commissione, che prevede 4 anni di aggiustamento per i Paesi mediamente indebitati e 7 anni per i Paesi più indebitati. L’Italia, come si vede, è dopo la Grecia il paese più indebitato (144,4% del Pil) anche se l’inflazione eccessiva sta riducendo il quoziente tra debito e Pil (un effetto non desiderato, ma positivo, la tassa da inflazione che colpisce i possessori delle obbligazioni seasoned).

I due percorsi di rimedio al deficit eccessivo prevedono una traiettoria negoziata con la Commissione. Se il Paese sta nella traiettoria, non viene aperta la procedura per debito eccessivo, che significherebbe l’imposizione di tagli automatici di spese pubbliche, aumenti automatici fiscali, la sospensione dei fondi europei di coesione: un commissariamento del bilancio. Una procedura di questo genere non è mai stata applicata, e dunque stare nella traiettoria sarà importante. La traiettoria di rientro nei 4 anni ha fissato un parametro di aggiustamento minimo del deficit/Pil dello 0,5% del Pil per anno (introdotto su pressione della Germania). Inoltre il calcolo viene realizzato sul deficit al netto della spesa per interessi senza considerare l’aggiustamento per il ciclo e l’output gap (che faceva discutere). Meglio così. L’aggiustamento in 7 anni non dovrebbe avere un minimo; per inciso per l’Italia la Commissione simula un aggiustamento di bilancio con una manovra pari allo 0,85% annuo del Pi in quattro anni, o di 0,45% annuo del Pil su sette anni, al momento corrispondenti a 4 manovre correttive da 15 miliardi (cumulative) o 7 da 8 miliardi all'anno (più l’inflazione e a meno di sforzi inferiori determinati da una crescita imprevista del Pil). La differenza del Piano a 7 anni è la condizionalità, simile a quella del Pnrr. Ossia, chi entra in un piano a 7 anni dovrà impegnarsi a riforme strutturali misurabili, in grado di aumentare il Pil potenziale e/o la produttività totale, dimostrando (il più possibile) ex ante l’impatto delle riforme. Un addetto ai lavori sosterrebbe che è molto difficile dimostrare ex ante l’impatto di risorse micro, perché sulle risorse micro mancano i dati sperimentali e manca il tempo per realizzare gli esperimenti.

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Ecco, se un dubbio può venire sulla efficacia del nuovo patto di stabilità, è la reale possibilità di controllare i percorsi di riforma, ma non in via di principio l’idea di abbinare e condizionare la concessione del rientro in 7 anni alle riforme. In generale, digerendo il fatto che l’Italia dovrà affrontare una delle due traiettorie e che la scelta dipenderà da come va l’economia (se continuerà a crescere, potrebbe bastare la traiettoria non condizionata di 4 anni), il patto presenta indubbiamente delle caratteristiche di innovatività. E’ flessibile. E’ basato sui dati. E’ comprensivo e precoce (verrebbe da dire che se ci fosse stato ai tempi del crack greco, forse sarebbe stato evitato), e permette alla Commissione di interessarsi dei bilanci degli Stati in termini micro.

I sovranisti potrebbero considerarla come una invasione di campo nella sovranità degli Stati. Ma questa è una obiezione fattualmente superabile. Gli stati a guida sovranista non hanno di certo rinviato gli aiuti del bilancio pandemico dell’Europa a Bruxelles. Se apparteniamo a un’Unione, gli affari di bilancio degli Stati non sono affari privati, ma diventano affari di tutti quando uno o più paesi sono in crisi, quale sia la ragione della crisi. Quindi è corretto che anche l’aggiustamento sia sorvegliato dalla Commissione. Soprattutto se si pensa che gli aiuti recenti sono venuti attingendo alla creazione della moneta comune e quelli del Pnrr attingendo al debito comune. Magari, prima o poi, si invocherà più controllo democratico sulla Commissione. Il che già avviene attraverso il processo di codecisione, che coinvolge il Parlamento, nella legislazione europea. In futuro è razionale che, in chiave federalista, il Parlamento possa dunque contare di più.