Tempo fa la Global Witness, Ong londinese che si occupa di politiche ambientali, ha denunciato la messa in vendita, da parte del governo liberiano, di una vastissima area forestale. Un affare in favore delle grandi società di legname, in prevalenza europee. Nel rapporto dell’organizzazione, veniva sottolineata la vastità dell’area soggetta a deforestazione: 26mila chilometri quadrati, pari a oltre il 23% del suolo liberiano. A essere contestata era inoltre la formula di concessione dei diritti di sfruttamento, Private Use Permits (Pup), che prevedono obblighi minimi per le aziende e non contemplano requisiti di sostenibilità: rimboscamento e partecipazione agli utili da parte della popolazione locale.

Inoltre, i Pup «garantiscono minori entrate al governo rispetto ad altre forme di licenze e violano le nuove leggi della Liberia volte a garantire il controllo delle comunità sulle loro terre», si legge nel documento. Immediata la reazione della presidente liberiana, Elen Johnson Sirleaf, la quale ha sospeso il responsabile dell’Autorità nazionale per lo sviluppo delle foreste, Moses Wogbeh, e ha aperto un’inchiesta sulla concessione delle licenze. Applausi dalla Global Witness.

La stampa britannica però ha voluto approfondire la questione. Secondo il Telegraph e la Bbc, la vicenda è più complessa di quanto Monrovia e l’Ong londinese dicano. Prima di tutto non si tratta di uno sfruttamento a senso unico. Gli europei cattivi e avidi, con casco coloniale e sega elettrica, arrivano, tagliano gli alberi e se ne vanno, lasciando la tribù – che per secoli ha vissuto nell’ombra della foresta pluviale – a bruciare sotto il sole africano. Non è così. La Liberia, sia quella di Taylor sia l’odierna democrazia della Sirleaf, accoglie da sempre a braccia aperte le multinazionali occidentali. Tant’è che i Pup portano la firma sia delle società acquirenti sia delle municipalità locali. Ma è pur vero che la popolazione non ha mai ricevuto alcun compenso economico, com’era stato invece promesso, per lo sfruttamento del territorio. Evidentemente il mancato risarcimento è di responsabilità sia delle compagnie straniere, come scrive Global Witness, sia della classe dirigente nazionale, sulla cui corruzione abbiamo già detto.

Il settore forestale è alla stregua di quello dei diamanti. Forse anche più appetibile. Immense le risorse, scarna la tecnologia per lo sfruttamento. Infine,nell’arco di 25-30 anni, si possono realizzare dei realistici piani di rigenerazione della materia prima. Su questi le colonie francesi hanno fatto da esempio1.

Come i diamanti, il legname ha contribuito a finanziare la guerra civile liberiana. Tant’è che è rimasto sotto embargo internazionale fino al 2010. Oggi, però, le sue esportazioni rappresentano un quinto del Pil liberiano. L’Unione europea sostiene che «globalmente, tra il 20% e il 40% della produzione di legname industriale, il cui valore è stimato a 10 miliardi di dollari all’anno, proviene da fonti illegali e che fino al 20% di questa produzione arriva in territorio Ue». Da qui l’accordo Bruxelles-Monrovia siglato nel maggio del 2011, con cui si prevede che, dal 2014, ogni carico di legname dalla Liberia ai Paesi Ue venga accompagnato da un certificato di origine. La partnership nasce dall’impegno della Liberia a promuovere la corretta amministrazione delle proprie risorse naturali2.

Anche qui è come per i diamanti. Se tutto è scritto, tutto è garantito. Vatti a fidare! Dicono però quelli di Global Witness. Sì, è vero. Non basta un foglietto per credere che tutto sia in regola.

L’Ong sostiene che gli occidentali stiano radendo al suolo la Liberia, in barba alla miserevole popolazione locale. Lasciamo perdere il velo razzista di un discorso del genere. Il buonismo ideologico di soggetti come Global Witness scade proprio nel trattare gli africani come se avessero ancora l’anello al naso. Non se ne rendono conto. Credono di essere nel giusto. Pace.

Come detto nella prima puntata, la Liberia è alla fame. Sicché qual è la priorità? Il territorio nazionale disboscato, oppure una popolazione che cresce ogni anno del 2%, ma che non sa come sopravvivere? La fine delle sanzioni su legname e diamanti ha permesso a Monrovia di coprire cinque miliardi di dollari di debito che la impegnavano con il mercato internazionale. Ma soprattutto ha enucleato un settore di impiego sul quale è possibile progettare una visione di crescita economica. Insomma, si deforesta, si paga la tangente, ma con il legname esportato in Europa almeno qualche liberiano ci campa. Sarà pure una goccia. Ma l’oceano è fatto di gocce.

A dispetto degli strali ambientalisti, quelli di Greenpeace in primis, non si può pensare di aiutare un Paese ricco di risorse naturali senza intaccare quest’ultime. Se poi l’appoggio esterno coincide con gli interessi delle multinazionali, forse è il caso di fare di necessità virtù e venire a patti con il mercato.

Le possibilità sono due. O si lascia che la Liberia – e tutta l’Africa – si gestisca da sé, oppure interviene la comunità internazionale. Il primo caso è impossibile. Se non tornando alla Modest Proposal di Jonathan Swift3. Il secondo si sdoppia a sua volta. A muso duro, si impongono le sanzioni fino a quando il governo di Monrovia, Abuja o di qualsiasi altro Paese africano non assume una veste liberal-democratica di foggia occidentale. Ma ci vuole del tempo. E comunque la Global Witness di turno avrebbe da ridire sui difetti dell’exporting democracy, per cui è a priori immorale imporre uno Stato di diritto fondato su valori quali libertà, uguaglianza, eccetera. La seconda opzione è che in Africa si continui a fare affari, mantenendo i contatti con un establishment inaffidabile, ma lasciando che il tempo levighi queste imperfezioni. (continua -2)

 

1Lina Maria Calandra, “Politiche conservative e conflitti ambientali nella geografia del colonialismo: l’esperienza dell’Africa Occidentale Francese”, in: “Conflitti ambientali: genesi, sviluppo, gestione” a cura di A. Turco e P. Faggi, Unicopli Editore, Milano, 1999.

2 Sui rapporti Ue-Liberia, Bruxelles mantiene aperto un dossier online.

3 Nel 1729, l’autore de I viaggi di Gulliver aveva proposto agli Irlandesi di ricorrere al cannibalismo per ovviare ai problemi di indigenza e crescita demografica.