L’emergere politico ed economico della Turchia (1) merita un approfondimento. Ecco la prima puntata. La seconda sarà sui rapporti fra Turchia e Italia e la terza un’intervista a un economista turco.

Il premier turco Recep Tayyip Erdogan una volta l’ha definita «la Cina vicina». E certo non gli si può dare torto. La Turchia ha chiuso il 2010 con una crescita che supererà l’8%, riprendendosi in modo reattivo dalla crisi che ha afflitto i mercati internazionali e da un 2009 che ha visto il suo Pil scivolare a un –4,7%, dopo cinque anni di aumento ininterrotto a colpi del 5,5-6%. Si tratta di un exploit accolto con interesse da tutta la comunità economica internazionale, soprattutto nei primi due trimestri, quando la Turchia ha fatto registrare percentuali di crescita «cinesi», 11,7 e 10,4%, sulle quali però pesa l’effetto base, ossia i risultati del 2009.

Questo 2010 da record non poteva arrivare in un momento più propizio per l’esecutivo islamico-moderato, ufficialmente responsabile del miracolo economico del paese e che lo userà per la campagna elettorale in vista del voto il prossimo giugno. Anche se, occorre ricordarlo, sull’exploit turco ha pesato in modo determinante l’adeguamento agli standard contabili Ocse ed europei.

Il 21 febbraio intanto si è idealmente festeggiato il decimo anniversario dalla crisi del 2001, che provocò il collasso di molte banche nazionali. Se si confrontano i dati, si può ben parlare di una Turchia di ieri e una di oggi. Nel 2001 il prodotto interno lordo della Mezzaluna era di 166,822 milioni di dollari, nel 2010 si è passati a 753,246 milioni di dollari. Il reddito pro capite dai 6.200 dollari del 2001 è passato agli 11.600 del 2009. La media di inflazione fra il 1993 e il 2002 era del 70,4%, la Turchia ha chiuso a dicembre 2010 con il 6,4%.

L’immagine è dunque quella di uno stato in salute. L’economia turca è sempre più al traino del settore industriale e di quello dei servizi, anche se l’agricoltura rappresenta ancora il 30% degli occupati. Il massiccio programma di privatizzazioni portato avanti dai due governi guidati da Recep Tayyip Erdogan ha ridotto la presenza statale in settori vitali come industria, banche, trasporti e comunicazioni, e permesso lo sviluppo di una classe media molto dinamica, che è uno dei fattori di successo della Turchia in questo momento. Il tessile, un tempo il settore più rappresentativo dell’economia nazionale, ha lasciato gradatamente il posto all’industria automobilistica, a quella delle costruzioni e a quella elettronica.

Il paese della Mezzaluna, poi, nutre ambizioni nel settore energetico che la rendono una meta appetibile per molti investitori. La politica che il governo sta perseguendo è quella di differenziare il più possibile le fonti di energia, puntando sul nucleare ma sfruttando anche il potenziale della Mezzaluna, soprattutto nelle rinnovabili come eolico, solare e geotermico. La Turchia rappresenta uno snodo cruciale per molte delle future vie dell’energia, soprattutto il gas naturale. Attualmente è atttraversata dal tratto più lungo del Baku-Tbilisi-Ceyhan, una condotta che porta il petrolio del Caspio nel cuore del Caucaso e al Mediterraneo. Nel giro di pochi anni ospiterà anche sul proprio suolo e nelle proprie acque territoriali il passaggio del Nabucco, spalleggiato da Stati Uniti e Unione Europea e che partirà dal Caspio fino all’Austria, e il South Stream, il concorrente, spalleggiato da Russia ed Eni.

Per il governo Erdogan sono stati anni di lavoro intenso ma di grandi risultati, ampiamente aiutati dall’apertura del paese ai mercati esteri. L’esecutivo ha implementato una serie di riforme finanziarie e fiscali, richieste dal Fondo Monetario Internazionale, con cui la Turchia nel 2008 ha concluso un accordo stand-by di 10 miliardi di dollari iniziato nel 2000.

Ed è proprio dall’istituzione di Washington però che adesso arrivano importanti avvertimenti. Accanto alla crescita turca infatti va segnalato l’aumento costante del disavanzo delle partite correnti, il vero tallone d’Achille dell’economia del paese, in gran parte strutturale e che nel 2010 ha raggiunto il 6,3% del Pil. Nel 2011 la crescita della Turchia frenerà, arrivando intorno al 4,7%. Si tratta di una diminuzione in larga parte prevista dagli economisti. Il disavanzo delle partite correnti invece continuerà a salire, toccando il 7% del Pil. Nel 2010 è aumentato del 247% rispetto al 2009, passando da 13,9 miliardi di dollari a 48,5 miliardi di dollari, mentre a dicembre il rosso si è attestato a 7,5 miliardi di dollari, da 3,2 miliardi a dicembre 2009, con un aumento del 131,9%, il più alto dal 1984. E questo per Ankara è tutto fuorché una buona notizia. L’ampliamento è favorito dal fatto che le esportazioni turche sono ad alta intensità di importazioni e dall’aumento delle importazioni per soddisfare la crescente domanda interna, soprattutto per quanto riguarda il settore energetico. Il 30% delle importazioni infatti è rappresentato dal gas naturale, acquistato essenzialmente da Russia e Iran: un conto salato per la Mezzaluna, di oltre 20 miliardi di dollari.

C’è poi il problema della dipendenza sempre più stretta dall’hot money, i capitali speculativi che entrano nel paese solo per il breve termine e che si contrappongono agli investimenti diretti, come quelli nelle infrastrutture, che prevedono una presenza nel paese sul lungo termine. Investimenti che, negli ultimi due anni, anche a causa della crisi, sono scesi considerevolmente, passando dai 22 miliardi di dollari del 2007, che era stato anche l’anno d’oro delle privatizzazioni, agli 8,3 del 2009. La diretta conseguenza di un disavanzo delle partite correnti così sbilianciato, secondo il Fondo Monetario Internazionale, è la dipendenza della Turchia dai capricci dei flussi dei capitali speculativi.

L’istituzione, in questo contesto, ha avuto parole di grande elogio nei confronti della Merkez Bankasi, la banca centrale turca, che negli ultimi mesi ha messo in campo una politica monetaria molto ardita, che consiste nell’abbassare e mantenere contenuti i tassi di interesse, al momento al minimo storico del 6,25%, aumentando nel frattempo i requisiti di riserva. L’operazione ha essenzialmente due finalità. La prima è quella di venire incontro alle richieste degli esportatori, che da mesi chiedevano una svalutazione della moneta. La seconda è di rendere meno attraente qualsiasi forma di debito, pubblico o privato, bond inclusi. Un’operazione volta a cercare di arginare i fondi speculativi in ingresso nel paese e che secondo il Fondo deve necessaramente essere seguita da altre misure, come una disciplina fiscale molto più serrata. Secondo il ministro dell’Economia, Ali Babacan, da quando le misure sono entrate in vigore, quindi da circa tre mesi, sarebbero già usciti dal paese 10 miliardi di dollari. Se la banca centrale riuscirà a vincere la sua scommessa, criticata da molti addetti ai lavori, lo potranno dire solo i prossimi mesi.

Adesso Ankara, oltre a crescere, deve anche pensare ad attirare più investimenti solidi. E per farlo ha già in mente una nuova ondata di privatizzazioni, nella quale potrebbero essere messi in vendita gli ultimi gioielli di famiglia. Ahmet Aksu, capo della Oib, l’amministrazione per le privatizzazioni in Turchia, ha assicurato che nel 2011 si opererà su diversi fronti, a cominciare dalla cessione di centrali elettriche. A finire nelle mani dei privati ci potrebbero essere anche 2.000 chilometri di strade, i due ponti sospesi sul Bosforo, la zona di Salipazari, nel centro di Istanbul e da tempo ambita da molte società di real estate per il suo valore immobiliare altissimo. In lista anche i due porti di Derince e di Smirne, nonché 23 milioni di metri quadrati di terreni statali.
Ma tutti gli occhi sono puntati su quello che viene considerato il gioiello più prezioso della Mezzaluna, ossia la sua compagnia di bandiera, la Turkish Airlines. Le cui azioni, attualmente detenute saldamente dallo Stato, potrebbero essere cedute in parte ai privati. Si tratterebbe di uno degli investimenti più interessanti. Proprio nei giorni scorsi, infatti, la compagnia ha fatto sapere di aver trasportato nel 2010 29,1 milioni di persone, con un incremento del 16% rispetto al 2009. Con sede a Istanbul, la THY è considerata una delle compagnie di bandiera che stanno crescendo più velocemente a livello globale. Nel 2009 ha fatto segnare ricavi netti per 389 milioni di euro nonostante la crisi.

Una compagnia di bandiera da record, insomma, come il suo paese di riferimento, che adesso, dopo la fase di boom, deve dimostrare di saper durare. Per il momento, un dato sembra chiaro a tutti. Nonostante la differenziazione dei mercati, che guardano più verso il Medio Oriente e l’Asia Centrale e che sono diretta conseguenza della politica estera dell’esecutivo islamico-moderato, difficilmente la Turchia ce la farà da sola, se si conta che le esportazioni non decollano a causa della sofferenza economica del mercato europeo e che gli investimenti stranieri diretti sono ancora per la maggior parte nelle mani dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. La banca centrale, in particolare, dovrà fare i conti con un preannunciato aumento dell’inflazione per i prossimi mesi, reso anche più acuto dalla difficile situazione in Medio Oriente.


(1) http://www.centroeinaudi.it/ricerche/dall-egitto-alla-turchia.html