Il potere (e il controllo) dei simboli
La cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi 2024, trasmessa in diretta televisiva in mondovisione, ha suscitato scalpore per una rappresentazione de “L’Ultima cena” di Leonardo caratterizzata da una complessa serie di inversioni. All’inversione più evidente – al posto di uomini vi sono drag queen – se ne aggiungono altre: il lungo tavolo sorregge, invece di un pasto, una console da deejay per trasformarsi poco dopo nella passerella di una sfilata di moda.
A questa rappresentazione la Conferenza Episcopale Francese ha risposto con una nota ufficiale, nella quale la gerarchia ecclesiastica denuncia il riferimento all’Ultima cena come un’invasione pubblica di campo, in particolare del campo simbolico, accusando la cerimonia olimpica di contenere “scene di derisione e di scherno del cristianesimo” e, indirettamente, reclamando a sé un potere di controllo e di uso legittimo dei propri simboli e significati[1].
Non è la prima volta che accade qualcosa del genere, anche se normalmente fare riferimento alla religione al di fuori del contesto religioso non fa emergere conflitti. Nei casi “pacifici”, l’uso di richiami religiosi può apparire come un fenomeno semplicemente curioso, e in fin dei conti marginale, anche se in realtà non lo è, in quanto rivela il crescente peso della dimensione simbolica per settori della società diversi da quello religioso. Nei casi di conflitto, invece, l’uso della religione diventa oggetto di dibattito, nel momento in cui accende controversie sui simboli e sulla loro gestione, la cui vera posta in gioco è il consenso collettivo che nel tempo si è accumulato su di essi.
La religione, i media e la politica
Il processo di dissociazione dei simboli religiosi dai loro contesti originari, per un verso, e la loro persistente efficacia nel contesto mediatico, per altro verso, sono aspetti di un unico fenomeno che oggi si manifesta in più modi. Lo testimonia la presenza sempre più visibile di immagini e simbologie pertinenti a una sfera religiosa nello spazio pubblico mediatizzato. Non tanto in settori e canali religiosi specializzati, quanto piuttosto proprio là dove non ci si aspetterebbe più di trovare questo tipo di riferimenti, dalla politica ai media, dalla pubblicità all’industria della moda fino all’arte visiva, vale a dire in ambiti dove vedere richiamata una sfera religiosa è oggi considerato, almeno nella percezione diffusa, un fatto alquanto insolito.
Consideriamo, per esempio, il mondo della politica americana. Un caso recente è quello dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump che, il 1° giugno 2020, si fece fotografare con una Bibbia in mano per sfidare il movimento Black Lives Matter che lo stava contestando fuori dalla Casa Bianca. Quel gesto, immortalato dai media nazionali e internazionali, produsse un’immagine dirompente capace di veicolare un potente messaggio politico rivolto alla sua base elettorale, in particolare all’elettorato evangelico che Trump, da presidente degli Stati Uniti, era riuscito a conquistare e che oggi, in vista delle elezioni presidenziali di novembre 2024, continua a coltivare ricorrendo alla retorica religiosa. Ad esempio, inserendo citazioni bibliche nei suoi discorsi pubblici, tenendo veri e propri comizi presso chiese amministrate da pastori conservatori e presentandosi sui suoi social network come “agnello sacrificale” e “martire”.
Tutto ciò contribuisce ad alimentare una narrativa in cui Donald Trump è riconosciuto come un “messaggero di Dio” mandato a rimettere in ordine le cose, abilmente collegata al mito nazionalista fondativo degli Stati Uniti – che gli studiosi indicano con l’espressione “eccezionalismo americano” –, cioè l’autoconvincimento di essere la nazione eletta da Dio per la rigenerazione del mondo.
Qui interviene anche l’attivismo di Steven Bannon, noto per essere l’ideologo del progetto politico di Donald Trump, attraverso la promozione di produzioni mediatiche che articolano in modo esplicito l’immaginario nazionalista religioso. Un esempio è il film Torchbearer diretto e prodotto da Bannon nel 2016, la cui sceneggiatura vede il protagonista riflettere sulla storia americana da un punto di vista nazionalista revisionista.
Da candidato alle elezioni per la quarantasettesima presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump ha accelerato su questa strada adottando una strategia che oltre ai media ora include anche il marketing. Durante i suoi comizi, invita tutti a comprare la Bibbia nella versione “God Bless the USA” venduta sui suoi siti a 59,99 dollari insieme a prodotti non religiosi, come le ormai famose scarpe Trump Sneakers e altri accessori di moda.
Mosaici sartoriali
Rimanendo sul piano della moda, è interessante osservare come anche in questo settore si possano cogliere analoghi meccanismi di riutilizzo dell’immaginario simbolico religioso. Per fare solo un esempio, nella collezione “Mosaico sartoriale” del brand di moda Dolce&Gabbana, gli abiti sono impreziositi da riferimenti che richiamano i mosaici a tema religioso del duomo di Monreale. I motivi a mosaico su questi capi di abbigliamento evocano un’idea di italianità di lusso – associata all’antichissima maestria degli artigiani che componevano questi mosaici nelle chiese dell’Italia bizantina e di quella medievale – che il brand Dolce&Gabbana riesce a traferire su stesso.
Viene così a crearsi un intreccio complesso nel quale religione e arte, connesse alla biografia dei due stilisti siciliani, concorrono a dare un senso di autenticità alla collezione. Più in generale si può ipotizzare che, in questo processo di decontestualizzazione, i simboli religiosi subiscano una trasformazione, divenendo una sorta di capitale che può essere impiegato da un brand commerciale per creare nuovi prodotti culturali che – è importante notarlo – svolgono funzioni che vanno a puro vantaggio del brand stesso.
Dei vantaggi derivanti dal trasferimento di simboli religiosi al di fuori dei loro confini di campo erano già consapevoli i primi pubblicitari che, agli albori della diffusione del consumo di massa, inserivano questo tipo di riferimenti nei loro messaggi. Lo si può osservare nei manifesti pubblicitari circolati in Italia tra la fine del diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo: i riferimenti religiosi in essi contenuti permettevano ai pubblicitari dell’epoca di collocare prodotti e servizi commerciali in un universo di senso che poteva essere facilmente riconosciuto e compreso dal pubblico, per il quale la fabbricazione e il commercio di beni di consumo di massa era un fatto del tutto inedito.
La simbologia religiosa usata in questi manifesti era peraltro assai articolata al suo interno. Tale articolazione è visibile nell’uso di simboli con significati positivi e con significati negativi. I simboli positivi, come ad esempi angeli, santi e scene bibliche, servivano per esaltare la bontà o l’utilità dei prodotti promossi. Un esempio è il manifesto che pubblicizzava la società contro i danni della grandine La Reale, nel quale un angelo custode trasferisce la proprietà della protezione a questa assicurazione.
I simboli negativi, come la tentazione, l’inferno e il diavolo stesso, erano invece a loro volta sdoppiati venendo impiegati in due modi diversi. Uno manteneva inalterata l’accezione negativa del simbolo, l’altro la aboliva o comunque la trasformava attribuendo all’aspetto tradizionalmente negativo un significato positivo. Un esempio del primo caso è il manifesto del cachet Rosa, una compressa analgesica raffigurata estirpare un diavolo dalla testa di un uomo che soffre di emicrania. Il secondo caso è esemplificato dal manifesto del sapone Pasubio, in cui un diavolo buono porge il prodotto a una folla incantata da questa novità. L’uso positivo di un simbolo negativo come quello del diavolo si può comprendere meglio considerando il contesto storico italiano in cui questi manifesti circolavano, nel quale l’avvento della modernità e il progresso tendevano a essere visti come un ritrovato diabolico. In tale prospettiva, la figura del diavolo permetteva di costruire anche una sorta di messaggio inverso volto a rassicurare il pubblico che i prodotti offerti nei manifesti non fossero effettivamente delle “diavolerie”.
Era questo un timore paragonabile a quello suscitato nel Nord America dello stesso periodo dall’avvento dei nuovi mezzi tecnologici di comunicazione, dal fonografo al grammofono alla radio.
Tali tecnologie mediatiche destavano timore nelle persone per la loro capacità di riprodurre suoni in modi che nessuno aveva mai sperimentato prima di allora, suoni che per questo in molti ritenevano provenire dall’oltretomba. Una soluzione individuata per risolvere questo problema fu pubblicizzarle attraverso simboli religiosi allo scopo di rassicurare i potenziali consumatori e alleviare la loro crescente “angoscia mediatica”. Tra i più noti di quel periodo vi era l’angelo della Deutsche Grammophon, la più antica casa discografica al mondo, che aveva inserito nel proprio logo un angelo che incideva su un disco con una penna per facilitare la comprensione della nuova tecnologia di registrazione alla base del fonografo. Un messaggio diametralmente opposto a quello che si ritrova nelle pubblicità contemporanee che commercializzano i brand tecnologici odierni, specialmente quelli informatici, in cui la religione continua a essere usata ma non certo per sfatare la natura diabolica dei loro prodotti quanto per esaltarne le qualità divine.
L’uso pubblico della religione: un boomerang?
Questi esempi indicano che siamo di fronte ad alcuni rilevanti mutamenti nell’uso pubblico dei simboli religiosi. Tali simboli, pur variando rispetto al contesto d’uso, agli attori sociali che vi fanno ricorso e ai loro obiettivi, hanno tutti in comune una caratteristica di fondo: la loro graduale ri-oggettivazione al di fuori di un campo specialistico della religione. Non solo: emerge anche che non si tratta di cambiamenti recenti in quanto possono essere fatti risalire molto indietro nel tempo a dinamiche in atto da più di un secolo.
Un punto centrale è quali conseguenze abbia sulle istituzioni religiose la trasformazione dei loro simboli. Le implicazioni dello spostamento che rende le religioni visibili dappertutto sono assai complesse. Da un lato, le religioni oggi calcano la ribalta perché diventano in qualche modo utili agli attori sociali che vi fanno ricorso, offrendo a questi soggetti risorse simboliche funzionali alla costruzione dei loro messaggi. Dall’altro lato, la collocazione originaria di questi riferimenti entro il campo religioso passa in secondo piano, mentre i simboli religiosi diventano un deposito di immagini e segni che può essere liberamente usato per creare nuovi prodotti culturali. In quest’ottica, l’immissione delle religioni sulla scena pubblica potrebbe essere solo una faccia della medaglia, comportando al contempo una retrocessione delle religioni dalla ribalta dovuta al fatto che le istituzioni religiose perdono la capacità di gestire, o almeno di controllare in modo esclusivo, il proprio patrimonio simbolico in favore di altri attori collocati in altri campi e settori della società.
[1] In seguito alle polemiche suscitate in Francia e nel mondo, l’ideatore della cerimonia e il comitato organizzatore hanno precisato che il riferimento all’Ultima Cena non era voluto e si sono comunque scusati per l’equivoco
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